Quinto giorno
Giornata di decompressione in vista dell'impegnativo viaggio di ritorno e risalita. Passando di fronte al Brufani con l'intenzione di godermi il panorama che offrono le balaustre dei Giardini Carducci, vengo casualmente attratto da una bancarella che mi taglia la strada. E' uno di quei banchi di antiquari che già ieri movimentavano la piazza. Riconosco subito alcune croci astili di metallo, viste un anno fa a Venezia, nella meravigliosa mostra sull'Etiopia che mi aveva catturato per tre ore di fila e dalla quale sono scappato soltanto perché in preda ai morsi della fame. Lasciando vagare la vista sul resto dei fascinosi oggetti esposti, mi rendo conto che, sì, indubbiamente è tutto materiale etiope. Il mercante dall'accento romano si avvicina e inizia la conversazione. Mi dice che vive otto mesi all'anno ad Adis Abeba, parliamo della mostra veneziana, gli racconto del nonno che portò a casa dalla campagna d'Africa del '36 alcune monete con raffigurato il leone di Giuda. E il pensiero va alle chiese monolitiche, a Lalibela, mi mostra un sistro, alcuni monili in filigrana di fattura moderna. Gli parlo di pre' Gilberto e dei suoi studi sul canto in doppio coro e sui rapporti fra la Chiesa di Aquileia e la Chiesa di Alessandria d'Egitto. Lo informo che di Andrea Camilleri è da poco uscito "Il nipote del Negus", che prende le mosse da un fatto storicamente accertato, e cioè l'iscrizione di un nipote del Re dei re a una scuola mineraria siciliana e che sta avendo il consueto meritato successo. Mi aggiorna sulla situazione socio-politica ed economica del Paese, mentre si avvicina l'ora di tornare all'aristocratico teatro, dove si dibatte dei rapporti Europa-USA. L'ambasciatore italiano a Washington siede accanto al suo omologo, che mister Obama ha mandato a Roma. Completano il panel un docente universitario francese e un giornalista del Sole 24 ore. Pranzo alla solita pizzeria Ferrari. Seduta a un tavolo a fianco al mio c'è una famigliola che dall'accento si direbbe ispanica, anche se parlano in italiano. La giovane mamma, per intrattenere il pargolo irrefrenabile, chiede notizie al cameriere di una filastrocca che, come fa? "Ambarabà cicò..." approssima. Il cameriere le rivolge uno sguardo sconsolato. "Se vuole, gliela dico io" intervengo. "Ma deve prendere appunti", la ammonisco.
Ambarabà, ciccì, coccò,
tre civette sul comò,
che facevano l'amore,
con la figlia del dottore.
Il dottore si ammalò.
Ambarabà, ciccì, coccò.
Non senza tradire un principio d'imbarazzo alla notizia dell'animalesco carnale congiungimento plurimo, tutti si fanno poi delle grandi risate.
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