(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

giovedì 21 giugno 2012

Il caso Olivetti


Sono convinto che i libri sappiano attendere il momento giusto per essere letti. Gad Lerner in “Operai”, pubblicato nel 1987, va alla ricerca di quel che rimane della classe operaia, avventurandosi tra i casermoni popolari che attorniano Mirafiori e le periferie torinesi. L’edizione economica del volume sonnecchiava da tempo tra gli scaffali delle mie librerie, fino a quando, qualche settimana fa, è scattato l’impulso ad iniziarne la lettura. Lo scorso primo maggio, mentre alcuni centri commerciali tenevano aperte le saracinesche nel vano intento di far ripartire l’economia, Rai 5 ha trasmesso in prima serata lo splendido documentario realizzato sul finire del 2011 da Michele Fasano per Sattva Films, che ricostruisce la storia dell’Olivetti (In me non c'è che futuro). Le suggestioni scaturite dalla visione del filmato, e lo stridore prodotto dal confronto con la narrazione di Lerner, mi hanno infine convinto a dedicare qualche giorno al Canavese, per toccare con mano e vedere con i miei occhi i luoghi dell’Olivetti di Camillo e Adriano.

L’esperienza dell’azienda eporediese si conferma quanto mai attuale. Pochi giorni or sono, mentre mi trovavo a Ivrea, in una delle librerie che ho saccheggiato per documentarmi e approfondire l’argomento, sono stato attirato da un volantino coricato a fianco del registratore di cassa. Reclamizzava un convegno che si stava tenendo proprio mentre io ne leggevo la presentazione, a Torino: La fabbrica al tempo di Adriano Olivetti. Premesso che non ho competenze specifiche in tema di organizzazione aziendale, né ho sufficiente conoscenza del fenomeno che l’Olivetti ha rappresentato nel corso degli anni, qualche idea tuttavia me la sono fatta. Un recente scambio di commenti via Facebook mi spinge ad approfondire un paio degli innumerevoli argomenti che potrebbero fornire interessanti spunti di riflessione.

E’ invalsa ormai da tempo una sciagurata abitudine a considerare il “costo” del lavoro uno dei fattori che deprimono la competitività e frenano lo sviluppo. Capita quindi che lo si indichi perfino come il principale responsabile della crisi economica in cui ci stiamo dibattendo.
“I salari all'Olivetti erano del 20%, almeno, al di sopra della base contrattuale; il 40% in più di quanto avveniva nella zona di Ivrea, per le aziende non metalmeccaniche.”
Così si esprime Francesco Novara, psicologo del lavoro per la Olivetti negli anni '50, nel corso di una puntata de La storia siamo noi (Adriano Olivetti - L'imprenditore rosso). In poco più di un decennio, la produttività dell'azienda cresce del 500%. A proposito dell'esperienza professionale di Adriano Olivetti c’è chi parla di “capitalismo dal volto umano”, “fabbrica a misura d'uomo”, “sogno industriale”. I numeri sembrano testimoniare che, se di filantropia si tratta, il conto economico non ne patisce. Al di là degli aspetti filosofici i conti tornano, ed è quindi forse sufficiente riconoscere che ci troviamo di fronte a un imprenditore capace e avveduto. L’azienda non è un ente benefico: deve produrre utili. Uno degli aspetti che differenzia la visione olivettiana dalle idee vaghe e confuse della moderna aristocrazia manageriale, onusta di imbarazzanti bonus e stock-option milionarie, è l’orizzonte temporale. Là dove Adriano mirava a creare un valore che si perpetuasse nel tempo, a vantaggio di tutti i protagonisti dell’impresa, i novelli briganti della foresta hanno come unico obiettivo i rendiconti trimestrali da presentare ai mercati e per conseguire risultati immediati sono disposti a qualunque sacrificio: speculazioni immobiliari, malsana finanza creativa, fusioni riorganizzazioni spin-off continui e quant’altro la prolifica fantasia dei loro costosi consulenti riesca a partorire; tagli del personale, rinnovi contrattuali al ribasso, riduzioni dei costi che vanno a incidere sul livello di qualità dei servizi e prodotti offerti alla clientela (tanto c’è sempre il marketing a produrre le cortine fumogene necessarie a favorire l’azione commerciale e mascherare le inefficienze)… Responsabilità sociale dell’impresa, attenzione a tutti gli stakeholders, codici etici, rimangono altisonanti neologismi e vuoti slogan à la page, buoni per ornare le pagine patinate dei fascicoli di bilancio da consegnare agli analisti.

Chi obietta che il modello olivettiano appartiene al passato e risulta difficilmente replicabile nell’odierno contesto economico non mi trova d’accordo. E’ provato, oltre che facilmente comprensibile, che nelle realtà aziendali in cui sono presenti fenomeni di mobbing l’assenteismo aumenta. Se i moderni guru delle strategie organizzative fossero in grado di applicare stili di governo del personale più funzionali e corretti, probabilmente non sarebbe necessario minacciare la chiusura degli stabilimenti e la delocalizzazione della produzione per ottenere un calo significativo dei certificati di malattia. Il successo dell’esperienza olivettiana si può riferire alla funzione catalizzatrice dello straordinario potenziale di creatività entusiasmo e partecipazione di cui ciascuno è portatore, se messo nelle condizioni per esprimersi al meglio. Se si crede nell’uomo come risorsa, il compenso pattuito per il suo lavoro non diventa un “costo”, ma un investimento costante, con ritorni assicurati che ripagheranno abbondantemente gli esborsi, generando valore per l’impresa. Se gli stili di leadership fossero sul serio improntati al coinvolgimento, alla partecipazione, al confronto, al rispetto reciproco, l’azienda ne trarrebbe sicuro beneficio. Ha funzionato a Ivrea e funziona tutt’oggi nelle realtà piccole e medie in cui gli imprenditori lavorano gomito a gomito con i propri collaboratori e non hanno modo di perdere il contatto con la realtà. Certo, si tratta anche di focalizzarsi su produzioni che consentano di sviluppare valore aggiunto e garantiscano margini adeguati: i bulloni a testa esagonale e le t-shirt che trovi al mercato rionale per 5 euro probabilmente oggi come oggi non rientrano in questo target, almeno nei Paesi sviluppati.
“L'innovazione tecnologica e l'eccellenza dei prodotti consente di praticare prezzi molto remunerativi: nel 1957 la Divisumma è venduta a 325.000 lire, quando l'acquisto di una FIAT 500 costava 465.000.Per la Olivetti la macchina, rimasta sul mercato per circa 15 anni, si rivela una vera miniera di redditività: il margine lordo, infatti, almeno nei primi si avvicina al 90%”
(da una didascalia della mostra allestita presso l'Archivio Storico Olivetti, a Ivrea).

Il senatore Furio Colombo, che ha ricoperto giovanissimo ruoli significativi all'Olivetti, nel corso dell’edizione appena conclusa del festival èStoria, a Gorizia, ha ben evidenziato le cause dell’attuale sconquasso, di cui la crisi economica e finanziaria non sono che gli effetti: il problema vero è la mancanza di idee, l’assenza di visione prospettica, la confusione dei valori. Riflettere sul modello olivettiano potrebbe oggi aiutarci a individuare una via d'uscita.

Nessun commento:

Posta un commento

se sei un utente anonimo, ricorda di aggiungere in calce il tuo nome ;-)