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venerdì 7 settembre 2012

Eluana Englaro: una morte a ostacoli


Le riflessioni attorno alla vicenda di Eluana Englaro, in quella che è la parte conclusiva della sua dolorosa esistenza, si possono svolgere almeno su due piani distinti. Si può ragionare di eutanasia, accanimento terapeutico e dignità del morente. Oppure si può considerare il rilievo politico che assume quanto accaduto nel nostro Paese negli ultimi giorni di vita della donna. Trascureremo qui il primo filone di analisi, per concentrarci sugli aspetti politici della questione. Dopo un travagliato iter giudiziario, il 9 luglio del 2008 i giudici della Corte d’Appello del tribunale di Milano avevano autorizzato il padre di Eluana a interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiali per la figlia. La Procura generale chiese allora di sospendere l’esecutività della sentenza, mentre ricorreva in Cassazione, incassando successivi rigetti da parte dei giudici competenti. Nel frattempo, il Parlamento aveva proposto ricorso alla Corte Costituzionale contro le sentenze di Corte d’Appello e Cassazione, sollevando un possibile conflitto di attribuzione. Il ricorso sarà poi ritenuto inammissibile. Su iniziativa di varie associazioni contrarie all’interruzione dell’alimentazione e idratazione venne coinvolta anche la Corte europea per i diritti dell’uomo, che il 22/12/2008 giudicò “irricevibile” la richiesta. Fin qui è riassunta la vicenda giudiziaria, conclusasi, dopo avere coinvolto una serie di giudici diversi a partire dal 1999, con una sentenza passata in giudicato. Un cittadino si era rivolto alla Giustizia per conto della figlia allo scopo di vederne tutelato quello che lui riteneva essere un suo diritto e aveva ricevuto una risposta definitiva. Ora non rimaneva che esercitare il diritto riconosciuto dai giudici.

A questo punto entra in campo la politica. Il 16/12/2008 il Ministro Maurizio Sacconi vieta alle strutture sanitarie pubbliche e private l’interruzione dell’idratazione e alimentazione forzate. Quando, il 6 febbraio 2009, l’equipe medica che segue il caso Englaro comunica di avere iniziato ad attuare il protocollo terapeutico autorizzato dalla Corte d’Appello, il Consiglio dei ministri approva un decreto legge teso a vietare la sospensione di idratazione e alimentazione forzate, che non verrà emanato dal Capo dello Stato per una serie di eccezioni di incostituzionalità già espresse in una lettera precedentemente indirizzata al Presidente del Consiglio. La prova di forza continua con la presentazione alle Camere di un disegno di legge che ripropone il medesimo testo del decreto legge. Durante la discussione del Ddl in Senato, il 9 febbraio 2009 giunge la notizia della sopravvenuta morte di Eluana.

E’ in questi giorni nelle sale il film realizzato dal regista Marco Bellocchio, che si ispira ai fatti di cui parliamo. Alcune tra le recensioni della pellicola sintetizzano in maniera efficace il clima in cui la vicenda di Eluana Englaro ebbe il suo epilogo. E’ un film che “dipinge l’affresco dell’Italia isterica in cui si consumò, nel febbraio 2009, l’ultima settimana di vita di Eluana Englaro” (La Stampa), “traccia con mano irridente i confini dell’agire politico nel nostro paese” (Il Messaggero), “resta di stimolante perlustrazione di un mondo alla deriva con contraddizioni vistose” (Il Gazzettino), “dipinge i politici come malati di mente, in una sorta di fine impero romano” (Il Giornale).

L’atteggiamento di un governo che ha fatto della decretazione d’urgenza la propria cifra caratteristica mai come in questo caso si rivela non soltanto politicamente inopportuno, ma anche istituzionalmente scorretto, considerata la sua manifesta incoerenza costituzionale. Di più: non si fatica a individuare nella sostanza di questo comportamento preoccupanti forzature eversive. L’essenza populista di un governo proteso ad assecondare gli umori della piazza e a farsi guidare dall’esito dei quotidiani sondaggi per meglio cavalcare il consenso di un elettorato superficiale e distratto, nel corso degli ultimi anni ci hanno fatto dimenticare che nel nostro Paese le leggi, in via prevalente, le fa il Parlamento, che non può ridursi a un’assemblea di nominati chiamata ad avallare l’operato degli “unti dal Signore”; il Governo, in via prevalente e ordinaria, amministra mantenendosi nel solco della legislazione vigente; la Costituzione Repubblicana non è un fastidioso impiccio di cui liberarsi, ma il fondamento giuridico posto a garanzia di tutti; le sentenze della magistratura si possono criticare, si possono anche non condividere, di certo non rappresentano una verità assoluta, ma vanno rispettate ed eseguite. In uno Stato di diritto, laico e democratico, questi sono presidi fondamentali di libertà, uguaglianza, pacifica convivenza e coesione sociale. La magistratura era arrivata alla decisione di autorizzare Beppino Englaro a “staccare la spina” dopo 10 anni di riflessioni e approfondimenti sviluppati da una pluralità di soggetti diversi. Il governo di allora non si fece scrupolo di intervenire su una materia tanto delicata e complessa, che coinvolge sensibilità diverse e diverse visioni del mondo, con un frettoloso provvedimento amministrativo, quasi si trattasse di variare un’aliquota fiscale. E’ appena il caso di ricordare, come nota a margine del nostro ragionamento e a beneficio di una più lucida analisi del panorama politico di quei giorni concitati, alcune affermazioni che ancor oggi non cessano di stupire, specie in considerazione delle circostanze in cui furono pronunciate, che avrebbero dovuto suggerire a tutti una più temperata moderazione dei toni. Eluana è “una persona che potrebbe, anche, in ipotesi, generare un figlio” (Silvio Berlusconi). “In questa vicenda peseranno per sempre le firme messe e le firme non messe” (Maurizio Gasparri). “Eluana non è morta. Eluana è stata ammazzata” (Gaetano Quagliariello)

Ricordare il caso Englaro non dev’essere perciò soltanto di stimolo, oggi, per affrontare e risolvere in un contesto di civile confronto la disciplina del testamento biologico, ma deve servire da monito, anche per gli anni a venire, affinché lo Stato di diritto non rimanga tale soltanto nel nome.

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