(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

sabato 25 maggio 2013

La zia Maria e l'esegesi del Kaddish.

Nel friulano di Claut, area di origine della mia famiglia, il piccolo arcolaio a pedale presente nella maggior parte delle case contadine fino a una cinquantina d'anni fa cambia genere e diventa la corleta. Stessa sorte tocca al tavolo da pranzo, che i miei genitori han sempre chiamato la tàula. Nella cucina-laboratorio della zia Maria a un angolo della tàula era stabilmente fissato con un morsetto una sorta di arcolaio a manovella, che serviva ad avvolgere su piccoli rocchetti di legno la lana acquistata in gomitoli o matasse. Questi birilli, una volta rivestiti della necessaria quantità di filato, venivano infissi a una delle macchine per maglieria presenti nel laboratorio. Poi era tutta questione di olio di gomito e sapienza artigiana: la macchina risucchiava i fili multicolore e rilasciava lentamente da sotto le singole parti da assemblare per ottenere una maglia soffice e calda: maniche, schiena, fianchi. Fin da piccolo, quella manovella era per me una magica attrazione. Ogni volta, quando andavo a trovare la zia, dopo i saluti e gli abbracci non sapevo resistere dal far compiere qualche giro veloce alla ruota. Divenne in breve un rito a cui non mi sono saputo sottrarre nemmeno una volta cresciuto. Ho cercato di condensare l'intenso rapporto affettivo che mi legava alla zia Maria, madre elettiva e maestra di vita, in alcuni versi, frutto del dolore provocato dalla sua morte, avvenuta ormai qualche anno fa.

Per recitare il Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche, è necessario che si formi un minian, ossia ci vogliono almeno dieci maschi adulti. Spesso, questa preghiera serve a ricordare un congiunto defunto. Il mondo ebraico, presentato da libri, film e luoghi comuni, ha da sempre esercitato su di me un fascino esotico e misterioso, stimolando la curiosità e la voglia di approfondirne la conoscenza. La mia preghiera per la morte della zia, scritta nella lingua degli avi, è un ricordo commosso e intenso, grato, gioioso: etichettarlo con un de profundis non mi pareva coerente.

Al masenin sul orle de la capa,
doi-tre giros de roda, udor de lana,
la tàula cui cingoms tacàs par sot.


Nella versione italiana di Moliendo cafè, Mina cantava negli anni '60: La mia nonna mi ha lasciato un buffo macinino, un antiquato e commovente macina-caffè, con una strana manovella ed un cassettino, avrà fornito centomila tazze di caffè. Lo deponeva in alto, sulla cappa del camino... Anche la zia Maria conservava nella sua cucina-laboratorio un vecchio macina-caffè a manovella, riposto sul bordo della cappa, relitto di una civiltà preindustriale in cui gli elettrodomestici e i supermarket non avevano ancora invaso case e campagne. E sotto la tàula i suoi figli più giovani, la coppia di gemelli, erano soliti appiccicare i primi chewing-gum dell'era moderna, dopo che una prolungata masticazione li aveva resi privi di gusto. Coll'andare del tempo, su tutti e quattro i lati della tàula finirono per incrostarsi decine e decine di gomme da masticare ormai esauste.

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