Quel che segue è il mio contributo all'antologia di racconti
DNA Alpino, pubblicata nel 2006 per iniziativa di alcuni ex allievi della SMALP di Aosta. Il volume raccoglie le esperienze di naia di 65 autori e copre un arco temporale che va dal 1938 al 2006. Quanto ricavato dalle 15.000 copie vendute fu devoluto all'Associazione Nazionale Alpini e contribuì ai lavori di restauro del rifugio Contrin, in Marmolada.
Il testo pubblicato nel libro differisce in parte da quello qui riportato per alcuni interventi di revisione editoriale resi necessari da esigenze di omogeneità stilistica. Nel breve profilo di presentazione che precede il pezzo, scrissi tra l'altro:
Impiegato pro tempore presso un primario istituto di credito, si ostina a mantenersi fedele al motto del proprio corso: “Ad altiora nati sumus”.
La mia natura di pecoranera mi porta a preferirne la versione originale.
Quella volta che, appena arrivato al reparto, dovevo uscire in marcia ma non sentii la sveglia, puntata sulle 5.30...
A Tolmezzo non c'erano alloggi di servizio per gli STEN di complemento: bisognava trovarsi una sistemazione in paese e in quel periodo io stavo ancora all'Hotel Miramonti. Arrivai in caserma col fiatone, sperando che non fossero ancora partiti. Andò a finire che dovetti acquistare un posacenere in cristallo, quale generoso contributo all'arredamento dell'ufficio del mio comandante di compagnia e continuai a dissetare a mie spese l'intero circolo ufficiali per le settimane successive.
Quella volta che arrivavano gli AUC da Aosta per il “campo arresto” e c'era da organizzare lo sgombero al poligono di Rivoli Bianchi...
Un collega mi chiese di sostituirlo la sera del giorno prima, assicurandomi che aveva già pensato a tutto lui.
La mattina successiva dall'autosezione gli ACL arrivarono in ritardo; dal centralino mandarono a dire che non erano ancora riusciti a preparare le RV3; prima di partire, uno dei conduttori si rese conto di non avere con sé i documenti del mezzo e corse a recuperarli; una volta arrivati in poligono, mentre collegavano il centralino i trasmettitori scoprirono che avevano dimenticato un cavo e bisognava ritornare a prenderlo in caserma.
Eravamo decisamente in ritardo.
Il capitano Zilli-Mangiafuoco, che per l'occasione avrebbe indossato i panni del direttore di tiro, lasciava intanto filtrare segnali di crescente nervosismo.
Preparandosi alla carica come un toro nell'arena, continuava a tuonare a mio danno a causa degli imbarazzanti contrattempi, finché, definitivamente spazientito, mi inchiodò con occhi di bragia:
“Poligono sgombero?”
“Poligono sgombero!”, dovetti azzardare, confidando che nel frattempo anche l'ultima vedetta avesse preso posizione e che non ci fosse qualche vacca solitaria al pascolo a fare da bersaglio alle granate degli obici.
Quella volta che mi mandarono come osservatore in tribunale perché uno dei miei alpini era finito sotto processo...
Qualche tempo prima, il giovanotto, in preda ai fumi dell'alcol in una delle sue notti brave, aveva danneggiato una dozzina di auto parcheggiate fuori dalla caserma.
Non avevo pensato a informarmi sui dettagli e una volta arrivato a Verona cominciai a fare la spola fra Pretura e Tribunale chiedendo se qualcuno sapeva dirmi dove si potesse svolgere l'udienza a cui dovevo assistere.
Finché l'orario previsto per l'inizio della seduta non fu trascorso.
Rientrai quindi in caserma sperando d'incontrare l'alpino incriminato, per poter sapere da lui com'era andata a finire prima che qualcun altro lo chiedesse a me.
Quando l'immancabile capitano Zilli, incrociandomi nel piazzale, mi chiese conto della missione, risposi, evasivo: “E' andata come doveva andare”, e me la cavai allargando le braccia e scuotendo la testa.
Quella volta che un tal colonnello mi consegnò una busta da far avere al comandante di un altro reparto...
Era una raccomandazione per un ragazzo di leva che gli era stato “segnalato”.
Finsi di scordarmi in tasca quella busta, che giace ancor oggi fra i miei ricordi.
O quella domenica che ci arrivò una richiesta di aiuto: alcuni escursionisti erano in difficoltà sul monte Strabut e bisognava organizzare in tutta fretta una squadra di soccorso per recuperarli prima che facesse buio...
In quattro e quattr'otto siamo saliti, ma senza trovare nessuno: forse era stato soltanto uno scherzo di cattivo gusto.
E, ancora, quando ci trovammo a distribuire panini ai ragazzi delle scuole medie impegnati nei giochi della gioventù...
Quando fummo sul punto di essere travolti dalla incontenibile esuberanza di quei piccoli diavoli, abituato a comandare una compagnia di alpini grossi e incazzati, arrivai a minacciare l'uso delle armi (che non avevamo) per cercare, inutilmente, di mantenere un po' di ordine.
Ma anche tutte quelle volte che salutavo qualcuno dei miei alpini al momento del congedo...
Avevo preso l'abitudine di dare del tu a quei ragazzi della mia stessa età in quell'unica occasione, nel loro ultimo giorno di servizio.
Stringendo le loro mani, in una presa ostinata che nessuno dei due voleva mai mollare per primo, fingevo di non vedere gli occhi lucidi che mi sono sempre trovato di fronte, e in molte occasioni ho dovuto affrettare i convenevoli per evitare che si scoprisse la mia commozione.
E quando poi, dopo il trasloco della compagnia, mi sono messo a riscrivere il piano di difesa della caserma, che fino al giorno prima aveva ospitato il battaglion Tolmezzo e ora doveva farsi bastare un'ottantina di alpini d'arresto...
Il nuovo comandante mi rimproverò:
“Potevi anche dirmelo che sei un raffermato!”
“Ma', veramente...”, obiettai, “io sono di leva.”
Finché non è toccato anche a me, di congedarmi e salutare col nodo in gola, uno ad uno, i ragazzi con cui avevo condiviso un'esperienza piena di insegnamenti, emozioni, fatiche, umanità, di errori e delusioni.
Quando ero di servizio, fino al contrappello rimanevo in fureria a leggere tutto quel che c'era da sapere, e tenevo la porta aperta.
Chi entrava e usciva dalle camerate all'inizio si limitava a un rapido saluto, poi qualcuno cominciò a fermarsi per fare due chiacchiere.
E, piano piano, riuscii così a conoscere i miei uomini, tutti, ognuno con il proprio bagaglio di storie.
Vent'anni dopo, ricordo ancora con orgoglio molti dei loro nomi.
Perché durante i mesi del mio servizio di leva io non ho conosciuto né Rambo né eroi.
Soltanto ragazzi normali, carichi dell'entusiasmo e dell'ingenuità della loro giovinezza.
Ho incontrato gente inetta e arrogante; i furbi che non perdevano occasione per trarne profitto, sempre impegnati negli intrallazzi più favorevoli al proprio tornaconto, ma anche persone oneste, disponibili e capaci, da cui ho imparato piccole e grandi lezioni; chi si faceva raccomandare per andare in servizio al soggiorno marino e quelli che non si stancavano di lavorare sodo ogni giorno.
Nessuno si è tolto la vita durante quei mesi, e gli unici atti di nonnismo che ricordo erano i maldestri tentativi di saltare la fila all'afflusso-mensa e una complicata gerarchia parallela, fatta di fantasmi, max, vix, topi, con le sue coreografiche e giocose liturgie.
Insomma, nulla di molto diverso dalla realtà in cui, una volta uscito dal bozzolo, mi sarei trovato di nuovo a sgomitare.
Però quei mesi sono stati per me un tassello fondamentale, un'ineguagliabile palestra a cui guardo ancora con nostalgia, pensando ai miei vent'anni e all'intensità e alla ricchezza di quell'esperienza formidabile.
E penso ai giovani del terzo millennio, che fra riorganizzazioni, professionismi e tagli di bilancio, sono costretti a rinunciare a tutto questo.
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