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“In questo basso mondo
tutto comincia con l'immagine
e prosegue con la metafora”
(D. Pennac – Signor Malaussène)
L'ospite che a casa mia lo nota, appoggiato sul davanzale della finestra della cucina, finisce facilmente per credere che si tratti di un alpino intento a scalare una parete rocciosa. In realtà, la piccola scultura di bronzo, fissata a un ravaneto di marmo bianco di Carrara, rappresenta un tecchiaiolo. Cavare un blocco di marmo dalla montagna che lo custodisce non è così facile come tagliare un panetto di burro. Lungo le linee di sezionatura del gigantesco monolite si formano delle scaglie, il cui peso può raggiungere alcuni chilogrammi, che rimangono precariamente incastrate nelle fratture della roccia. I ravaneti, appunto (per una corretta pronuncia, ricordarsi di arrotare per bene la erre...). Compito del tecchiaiolo è di calarsi lungo la parete di marmo per rimuovere i ravaneti, prima che possano cadere in testa ai cavatori.
Il territorio del comune di Carrara si sviluppa longitudinalmente, dai colli al mare. Il centro storico sta a nord, scendendo in pianura si incrocia la ferrovia che da Pisa porta a La Spezia, e proseguendo si raggiungono le spiagge di Marina di Carrara. Quando, nell'estate del 1990, la Banca mi inviò presso quella filiale e mi presentai alla stazione di Pordenone per acquistare il biglietto del treno, l'operatore allo sportello mi rispose con burocratico disinteresse che la destinazione da me richiesta non esisteva. Non era un buon inizio. Dopo qualche insistenza e più accurate ricerche, finalmente ottenni il mio lasciapassare per Carrara-Avenza.
Oltre che per il pregiato marmo bianco, prediletto da Michelangelo, Carrara è nota per essere terra di anarchia. A causa di ciò, mi spiegarono, durante il Ventennio la sede della Banca d'Italia fu spostata a Massa, che le venne preferita come capoluogo di provincia. I carrarini mi riservarono da subito una generosa accoglienza. Riuscii a trovar casa già il giorno del mio arrivo (anche se mi ci sarei trasferito qualche tempo più tardi, una volta formalizzati gli accordi) e i due simpatici vecchietti dell'azienda di soggiorno arrivarono a raccomandarmi al titolare del “bagno” dove nel fine settimana mi sarei potuto rilassare steso sotto un ombrellone. Ianni era il feroce capocassiere della filiale, capace di fulminare l'interlocutore con una sola occhiata. Aveva baffi da pirata e capelli corvini scarmigliati. Soleva manifestare il proprio disappunto ricorrendo a una sorta di maledizione voodoo in vernacolo, che ruggiva tutta d'un fiato: “Di' vo' che te s'ciupass come 'na ianda!”, cui seguiva, dopo una breve pausa ad effetto: “Ti, e tuti i to corni!”.
Appena arrivato in città presi alloggio in un albergo vicino alla stazione ferroviaria. Il tragitto quotidiano per andare al lavoro, risalendo in autobus verso il centro storico, durava una ventina di minuti. Nei primi giorni, tenuto conto che dovevo investire parte del tempo libero per esplorare la città, non mi pareva conveniente rientrare in albergo per cambiarmi d'abito e poi ritornare in centro per la cena. Avevo individuato una trattoria dall'atmosfera casalinga, dov'ero accolto fra mille salamelecchi e sorrisi da una cerimoniosa padrona di casa. Finalmente, arrivò la sera in cui riuscii a trovare il tempo per liberarmi dalla mia tuta da lavoro (giacca e cravatta) e mi presentai a cena al solito posto indossando jeans e maglietta. Rivolsi allora il consueto sorriso alla mia cerimoniosa ospite, ma lei fece mostra di non riconoscermi e, per quella sera, accantonò ogni premura, riservandomi indispettita soltanto una fredda attenzione.
Compresi in quel momento l'importanza delle apparenze.
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