(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

martedì 2 luglio 2013

I nuovi schiavi


Quando su queste pagine evocavamo un feudalesimo di ritorno era l'inizio del 2012. Ora trovo un bell'intervento della collega Marcella Rossi, che propongo volentieri ai miei sparuti lettori.

I nuovi schiavi
Società moderna, economia feudale

Negli ultimi mesi la lettura di giornali e di blog culturali ha riservato ai lettori la sorpresa del ritorno di parole e concetti che non si ascoltavano più da decenni. Si è tornato a parlare di economia feudale riferendosi ad un concetto di economia che non gira più attorno a produzione e lavoro, ma solo alla rendita. Si è ritornato a parlare di un argomento, per la nostra società, alieno: quello di schiavitù. Scrive l'antropologo Claude Meillassoux: "La schiavitù non è finita. Essa perdura nelle società che si definiscono umanistiche, anche se edificate sulla spoliazione dell'uomo". La frase è riportata dal professor Galimberti su “D” di Repubblica, e fa appunto da apertura alle sue considerazioni: Nell'introduzione al libro dell'antropologo Claude Meillassoux, Antropologia della schiavitù (Mursia), Alessandro Triulzi individua l'essenza della schiavitù nel fatto che gli schiavi sono "socialmente sterili", nascono e si riproducono biologicamente, ma non nascono nella società, dove non hanno rilevanza. Hanno lo statuto della merce e al pari della merce rispondono ai criteri del valore d'uso e del valore di scambio ... La nostra Costituzione si definisce "fondata sul lavoro", perché il lavoro è la porta d'ingresso nella società, ma se il lavoro non c'è perché il mercato non lo richiede, i nostri giovani rientrano nella categoria dei "socialmente sterili", proprio come gli schiavi. Talvolta vengono impiegati per un certo periodo di tempo, rispondendo al pari delle merci al valore d'uso, e poi, quando il contratto a tempo scade, si offrono al valore di scambio diventando "flessibili". L'unica differenza rispetto alla schiavitù classica è che gli schiavi dell'epoca coloniale avevano un padrone (come peraltro ancora oggi gli immigrati che, in condizioni disumane, raccolgono nel meridione pomodori o arance), mentre gli "schiavi" odierni e i loro "padroni" sono dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato. E come fai a prendertela col mercato o a ribellarti al mercato, anche quando esso confligge col mondo della vita, al punto da creare masse sempre più ingenti sotto la soglia della povertà? Mancano gli strumenti, non si intravvedono strategie, al massimo si sfoga la propria indignazione in manifestazioni che non modificano alcunché. - La conclusione è terribile: - Con riferimento alle forme di schiavitù mascherata, mai chiamate col loro nome, (...), possiamo dire che quando parliamo di "precariato" diciamo subordinazione della vita umana alle esigenze di mercato. Quando diciamo "delocalizzazione" dovremmo dire sfruttamento di mano d'opera nei paesi meno sviluppati. Quando parliamo di immigrati dobbiamo pensare all'abbattimento dei costi del lavoro, quando non al lavoro nero. La vita dura in media 70 o 80 anni, ma chi perde il lavoro a 50 è troppo vecchio per trovarne un altro, e perciò, al pari degli schiavi, rientra nella categoria dei "socialmente sterili" per la sua irrilevanza sociale, allo stesso modo dei "troppo bravi", costretti a emigrare da un paese che ancora fatica a riconoscere la meritocrazia. E poi c'è la schiavitù sommersa delle donne, divise tra lavoro e famiglia, senza adeguate strutture di supporto per la cura dei figli e un margine di tempo per pensare a se stesse e alla realizzazione dei propri sogni. Se l'antica schiavitù massacrava i corpi con pesanti turni di lavoro ed esemplari punizioni, la moderna schiavitù massacra l'anima, rendendola esangue nell'implosione di ogni progetto e nel brusco risveglio da ogni sogno, anche solo accennato. C’è di che riflettere, e bisogna ritrovare la forza e il coraggio per continuare a chiedere diritti e tutele per il mondo del lavoro e delle serie politiche di crescita economica.

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