(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

sabato 17 agosto 2013

Il Bàchero di Spilumberc

“Viaggio in Friuli, tra i vini e gli uomini” (Treviso, 2004) è una raccolta di pezzi scritti da Amedeo Giacomini per la rivista “Il Vino” sul finire degli anni Settanta, la cui lettura mi ha riservato l'emozione di riscoprire un mondo perduto e un autore dalla scrittura fascinosa. Da questo prezioso repertorio di notizie vi propongo un estratto:
(…) I ”bàccari” capitarono qui da noi sul finire del secolo XIX quando fummo messi all'asciutto dalla fillossera e dalla peronospora. Come potevano le gole arse dei friuloti restare senza vino? Poiché il nome Friuli è sì grande “che per terra, per mare e per lo inferno si spande” non dovette tardare la notizia dell'infame 'siccità' a giungere fino in Puglia. Là il vino abbondava come la miseria e i bravi terrigeni si mossero... Vennero da Bisceglie, i più da Trani, da Bitonto, da Sava, da Squinzano... Avevano nome Sasso, Todisco, Gargiulo, Porcelli, Laurora: quasi pionieri d'una nuova America assetata, chiamandosi (o aiutandosi) l'un l'altro aprirono ovunque osterie. Vendevano, è ovvio, i loro vini: il Sava, lo Zaccarese, l'Aleatico,, la Malvasia, lo Zibibbo, ma fra tutti il più buono era il vino di Bàccaro, appunto, l'unico non dolce e per questo più gradito ai palati dei locali. Fu proprio esso a dare il nome alle osterie. Veniva chiamato anche Vin Brusco, ma Bàccaro piacque di più e finì per connotare i proprietari delle mescite. Non nego che alla base di questa scelta ci sia stata anche una punta di razzismo; il friulano, si sa, se non proprio tirchio è sempre stato parsimonioso, e nelle mani dei 'bàccari', dei pugliesi finiva non poca parte dei loro fin troppo magri stipendi... Soprattutto da quando i 'bàccari', vedendo soppiantato, nel giro di pochi anni, il loro vino da quello locale, rinato con l'importazione di vitigni resistenti alle malattie (il Bacò, il Clinto, il Fragola, ecc...) si misero anche a vender olio. Fornitrice, dalla Carnia al mare, era la ditta Marasciullo, che credo abbia cominciato proprio qui a farsi il suo grande nome. I friulani, infatti, a partire dalla crisi degli uliveti avvenuta nel '500, non erano più abituati a quel condimento: usavano il burro; questo però era più costoso e i 'bàccari', pur vendendo meno vino, tornarono sulla cresta dell'onda e seppero restarci così bene da riabituare all'olio tutto il Friuli... Alcuni, approfittando d'avere il condimento in casa, si misero anche a far cucina: mettevano in pentola cibi popolari: trippe, aringhe alla piastra e soprattutto baccalà, perché gente del popolo erano i loro clienti: pensionati, sensali, fattori che calavano al centro nei giorni di mercato, operai che lavoravano alla ferrovia pedemontana, quella voluta da Marco Ciriani, fondatore della Democrazia Cristiana, ferrovia oggi in disuso... Quello di Spilimbergo, per la bravura dei suoi proprietari e per l'importanza del mercato locale – convengono ad esso ogni settimana, e da secoli, gli abitanti di almeno sei vallate – è l'unico che mantenga ancor oggi l'antico aspetto. Per me il 'Bàchero', che cominciai a frequentare da ragazzo quando seguivo mio nonno fattore a far mercato, è sempre stato il cuore di Spilimbergo. Di quel locale – oggi che il baccalà costa più dell'oro, diventato ritrovo quasi snob per ricconi e artisti di passaggio – mi piace tutto, dai muri tanto spessi da non aver tremato nemmeno in occasione del terremoto, all'odore che gli stessi emanano (un tanfo che ti costringe a cambiare d'abito appena rincasi), al quadro dello 'sbronzo' ora annerito (e reso più misterioso dal fumo delle cibarie) del nostro gran Pittino, finito di dipingere (io testimone!) sotto un tavolo mentre intorno, tutti al di là del bene e del male, noi pochi e scelti suoi amici berciavamo: “Creola, dalla bruna aureola...” con quel che ne consegue (...)

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