e le note vengono aggiornate di quando in quando)
sabato 10 agosto 2013
Ma cos'è questa crisi?
L'Italia è il Paese che amo. Ciò non toglie che di fronte alle sue innumerevoli contraddizioni mi risulta sempre più difficile trattenere quanto meno un moto di stizza. Qualche giorno fa ho letto uno dei reportage estivi di Paolo Rumiz sulla Grande Guerra, in cui viene ricordato il 97° Reggimento (dell'esercito austroungarico), formato da triestini, istriani e dalmati allora sudditi dell'aquila bicipite, che si trovarono loro malgrado a combattere contro i nostri soldati. Storia scomoda, imbarazzante e perciò presto dimenticata. Un altro episodio a lungo rimosso dagli Stati Maggiori fu la battaglia di Ragogna. Siamo ancora all'epoca della Grande Guerra, quando le truppe imperial-regie sfondarono il fronte a Caporetto. Era novembre, e il Tagliamento in piena aveva spazzato le precarie passerelle che garantivano i collegamenti tra le due sponde. Il ponte di Dignano ancora non esisteva e fino a Latisana l'unico attraversamento ancora agibile era nei pressi di Pinzano. Per dar modo ai nostri di riorganizzarsi sulla linea del Piave occorreva mantenere le posizioni ad ogni costo e ritardare il più possibile l'avanzata nemica. La Brigata Bologna fu abbandonata a questo scopo sul monte di Ragogna (alle cui spalle, nel frattempo, era stato fatto saltare il ponte mentre i profughi in fuga ancora lo stavano attraversando). Una volta conquistata la posizione, furono i feroci avversari a concedere l'onore delle armi ai nostri fanti, riconoscendone il valore prima di spedirli in un campo di prigionia. Chi avesse l'occasione di visitare il Museo della Grande Guerra, allestito nella ex scuola elementare di San Giacomo di Ragogna, udrebbe la storia qui sintetizzata, arricchita di molti più particolari, date, nomi dei protagonisti, da un'infaticabile signora, custode e guida che cattura i visitatori per poi travolgerli col proprio sacrosanto orgoglio di madre. Sì, perché questo è un museo, per così dire, a conduzione familiare. Tutto nasce dalla passione per la ricerca storica di Marco, figlio della signora, che fin da piccolo ha percorso le trincee raccogliendo i pezzi esposti nelle sale del museo e approfondendo la storia delle vicende che avevano interessato da vicino la propria comunità. Ne è nato un libro e poi un progetto che ha portato alla realizzazione del museo. I venti chilometri di sentieri che collegano i resti delle postazioni difensive allestite sul monte vengono sfalciati regolarmente dal marito della signora. I graffiti rupestri tracciati dai fanti della Bologna sono stati pazientemente catalogati nel corso degli anni dalla famigliola, con grande impiego di pennarelli a ripassar le scritte ché altrimenti non risulterebbero leggibili nelle foto (60 mila scatti digitali, dice la signora, oltre alle prime diecimila foto stampate, che tocca ancora a lei spolverare). A mitigare la calura che in estate renderebbe infrequentabili le aule della ex scuola elementare è la signora ad aver acquistato un condizionatore e alcuni ventilatori, e il Vetril per pulire le teche espositive se lo porta da casa. Certo, l'allestimento del museo è stato possibile grazie alla disponibilità di fondi comunitari, in questo caso ottimamente impiegati. I locali sono forniti dal Comune, che si accolla, immagino, anche le relative spese di funzionamento. Però rimane una punta di amaro in bocca nel pensare che questo formidabile giacimento culturale esiste e resiste soltanto grazie alla fondamentale partecipazione volontaria di un intero nucleo familiare. Che contribuisce anche a curare un fitto calendario di incontri di approfondimento e divulgazione storica (si premuniscano gl'improvvidi visitatori di un minimo di conoscenza storica, perché se la signora scopre che non conoscete nel dettaglio la storia dei moti di Navaròns, ve la sciorina senza prendere fiato ben oltre l'orario di chiusura del museo). Furio Colombo, noto giornalista, scrittore e uomo politico, sostiene che l'attuale crisi economica non è altro che un sintomo della ben più grave assenza di idee che l'ha prodotta. E in questo travagliato Paese, dove da anni manca una seria politica industriale, dove nessuno mostra di tenere in considerazione il rilievo (anche) economico della ricchezza culturale diffusa di cui immeritatamente disponiamo, come si fa a dargli torto? Perché si entra gratis nel museo di Ragogna? Non si potrebbe, riscuotendo dai visitatori un modesto obolo pari al costo di un aperitivo consumato al bar, garantire uno o anche due posti di lavoro per un custode capace di intrattenere gli ospiti con lo stesso fervore appassionato che dimostra la madre di Marco? Il bookshop già c'è (e ben fornito). In una struttura pubblica probabilmente non ci avrebbero pensato. Ma qui si potrebbe ricavare lo spazio per un angolo ristoro con bibite e caffè, si potrebbero modulare diversamente gli orari di apertura (o dobbiamo chiudere il museo per malattia, quando la signora cade vittima dell'influenza stagionale?), ci sarebbero risorse per gestire più convenientemente la comunicazione. Quel che è stato già fatto da un piccolo comune è sorprendentemente lodevole. Manca però la visione prospettica e il coordinamento operativo della Politica. Quella che ha le risorse, ma insiste a sperperare il denaro pubblico in opere inutili e incompiute senza fornire le risposte concrete che ci aspetteremmo.
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