e le note vengono aggiornate di quando in quando)
martedì 8 ottobre 2013
Dal nove ottobre all'undici settembre.
Avevo uno zio ertano che ha vissuto a Vajont fino a quando la malattia non lo ha portato su cime più elevate, da cui può ora guardare con serenità alle umane vicende. Conservo il ricordo di un allegro gigante buono, che amava prendersi gioco di me con garbo e non lesinava battute sornione a ogni suo interlocutore, un solido montanaro che dispensava buonumore e sorrisi. Vi è stato un tempo, a dire il vero non molto distante, in cui la miseria materiale era bilanciata da una straordinaria ricchezza di sentimenti. Un tempo in cui il bosco racchiudeva un mondo di saperi e rappresentava un'insostituibile risorsa; un tempo in cui gli uomini possedevano una sapienza manuale oggi perduta. I miei familiari appartengono a quella fertile stagione. I nonni sapevano ricavare burro, ricotte e formaggio dal latte proveniente dalla stalla; filare la lana delle pecore e lavorarla ai ferri per ottenerne calzettoni a prova del più rigido inverno. Mio padre era in grado di trasformare un pezzo di legno in mestoni da polenta, sessole e cucchiai. Lavorando al tornio, come per incanto gli zii facevano sortire dai tronchi di faggio che loro stessi avevano abbattuto dei graziosi pestasale, ma adoperando il coltello sapevano anche produrre rumorose raganelle, per la gioia dei più piccoli. Col passare degli anni i rapporti si sono invertiti, e come in un gioco a somma costante a noi è toccato di vivere oggi con minori privazioni in una società assai più arida. Sarà stato per quel pudore pragmatico che non concedeva spazio all'autocommiserazione, che in famiglia non ho mai sentito parlare del Vajont. I montanari (ma il discorso vale anche per i contadini di pianura di quell'epoca) sono fatti così: c'è il lavoro da mandare avanti, non avanza tempo per piangersi addosso. Immagino che all'epoca del disastro lo zio Toni abitasse nei pressi della diga, visto che poi è finito a vivere in quel villaggio costruito dal nulla vicino a Maniago e destinato agli sfollati, con le case tutte uguali: da bambino, quando mio padre mi portava a trovare lo zio, non capivo come facesse a riconoscere quella giusta. Così sono cresciuto ignorando quella storia tanto vicina e dolorosa, fino a quando una tragedia lontana qualche migliaio di chilometri ma altrettanto devastante, ha contribuito a svelarne ogni dettaglio. L'undici settembre 2001 mi trovavo a Torino per una breve vacanza, ospite con mia madre in casa di alcuni amici. Era un lunedì e avevamo visitato il museo del cinema, alla Mole Antonelliana. Verso le cinque della sera, Giorgio, uno dei figli di questi nostri amici, entrò in casa trafelato, ingiungendoci di accendere la tv, perché a New York era capitato un grosso incidente: un aereo di linea si era schiantato su una delle torri gemelle. Da lì a poco, un altro velivolo si abbatté sulla seconda torre e capimmo che non poteva trattarsi di un incidente. Io e mia madre avevamo ancora praticamente l'intera settimana a disposizione, ma ci passò subito la voglia di fare i turisti, impegnati come eravamo a seguire i notiziari e leggere i giornali. Iniziò presto a diffondersi la paura che la serie di attentati terroristici potesse continuare, coinvolgendo altri fra i cosiddetti paesi occidentali. Per allentare la tensione iniziai allora a leggere un libriccino che avevo trovato in casa e la storia che ribolliva là dentro mi risucchiò rapidamente. Tutto ebbe inizio così. Già da qualche anno il lavoro teatrale di Marco Paolini e Gabriele Vacis era stato trasmesso dalla Rai, in diretta sulla diga del Vajont, ma io non l'avevo visto. Nel libretto era trascritto il testo dello spettacolo. La vicenda mi si presentò piuttosto complessa e dovetti rileggere più volte alcuni capitoli per riuscire a farmi una mappa mentale che mi accompagnasse nel tragitto. Allo sconvolgimento provocato dalla sciagura contemporanea andò così ben presto sommandosi una crescente indignazione per quella incredibile vicenda di straordinaria arroganza. Una volta rientrato a casa mi procurai la registrazione dello spettacolo di Paolini e lo rividi più volte, lessi il libro di Tina Merlin, vidi le foto di Bepi Zanfron e continuai ad approfondire la mia ricerca consultando risorse web e acquistando libri sull'argomento. Andai per la prima volta fin lassù, sul coronamento della diga, e ascoltai le spiegazioni della guida. Visitai il museo di Erto e osservai smarrito quel paesaggio lunare, così in contrasto con i verdi boschi della Valcellina. A 50 anni dalla strage, testimonianze video, memorie dei protagonisti di allora e ancora documenti per approfondire, lungi dal placare la mia curiosità, suggeriscono invece nuovi filoni dove cominciare a scavare. Celebrare la ricorrenza della strage è necessario anche anche per diffonderne la conoscenza, perché il rischio di cedere al delirio di onnipotenza è sempre dietro l'angolo e oggi, come ieri, conviene che ciascuno mantenga costantemente vigile la propria attenzione. E immagino che anche lo zio Toni sia d'accordo, dal suo osservatorio privilegiato. Pur senza rinunciare a puntarmi contro un dito indice accusatore allo scopo di redarguirmi. Per finta, s'intende.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento
se sei un utente anonimo, ricorda di aggiungere in calce il tuo nome ;-)