(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

sabato 11 ottobre 2014

Lo zio Italo

Nella sua versione tascabile, quella che fa la gioia dei più piccini, a Claut si chiama cràthula. L'esemplare che conservo mi fu donato dallo zio Italo, montanaro capace di manualità ormai perdute. Almeno per i nativi digitali, che si sentono molto più a loro agio smanettando sui loro ultramoderni dispositivi portatili, utili a farli sentire connessi col resto dell'umanità al prezzo di uno spaesamento profondo. Lo zio Italo no. Lui pascolava le capre e ne ricavava squisite ricotte. Esplorava il bosco alla ricerca di funghi, tagliava la legna e fischiettava. Lo vedo ancora, con le sue camicie di flanella a quadri, i pantaloni di fustagno e gli scarponi, i capelli arruffati e lo sguardo fulminante da creatura della foresta. All'occorrenza, sapeva creare delle piccole raganelle, con la pazienza e la cura che soltanto le mani di un artigiano conoscono. Intagliava, levigava, cesellava, montava infine i pezzi ottenendo un povero giocattolo capace di entusiasmare un bambino assai più di un'autopista Polystil nuova fiammante. Ricamava nel legno anche i suoi preziosi Alpenstock, i bastoni da montagna di cui era geloso, che lo accompagnavano nelle quotidiane escursioni into the wild. Usciva con qualunque tempo. Viveva in simbiosi con la natura, lo zio Italo, avendo rinunciato da tempo a comprendere la follia degli uomini. Quelli che lo avevano mandato alla guerra, avidi custodi delle proprie miserie, mentre lui in osteria dispensava buonumore e giri di rosso con rara generosità. Non sapeva leggere la musica, ma quando imbracciava la fisarmonica l'allegria era assicurata per tutti. Per le sue passeggiate solitarie custodiva invece nella tasca della giacca un'armonica a bocca, dalla quale traeva confortanti melodie.

Nella loro versione da concerto, le raganelle si trasformano in rumorosi batatòcs, che accompagnano la processione del Venerdì Santo e, issati a braccia sulla cima del campanile, sostituiscono i bronzi ammutoliti. Ci vogliono bicipiti da boscaiolo per azionare un batatòc, così come sanno fare gli uomini del paese. Nel volume “Claut, chiuso tra i monti”, dato alle stampe nel 1981, Sergio Giordani scrive:
Il “batatòc” è un parallelepipedo di legno di abete o di larice, che misura cm 200x30-35, dotato di un rullo “monoblocco” di larice, munito di sei “spine” o denti, di maggiociondolo, disposti su cinque file. Quando il rullo viene fatto girare azionando una manovella, i denti sollevano dei martelli di legno incorporati in altrettante mazze di frassino e le violente percussioni spandono nell'aria, amplificato dalla struttura che fa da cassa armonica, quel forte suono che riproduce il terremoto avvenuto dopo la morte di Gesù. La valle rintrona del martellante suono dei batatòcs dalle ore 12.00 di giovedì fino a sabato santo alle 21.00, annunciando le funzioni religiose al posto delle campane.
Lo zio Italo ha smesso da tempo di costruire cràthule, però sarei pronto a scommettere che l'armonica se l'è nascosta in tasca, prima di partire per l'ultima escursione, così da tenere allegri anche gli angeli del Paradiso, mentre li fulmina coi suoi occhi da folletto dei boschi.

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