3 settembre 1941. Sono fermo a Verona, proveniente da Cuneo, in attesa della coincidenza per Bassano dove sto andando per gli ultimi sei mesi di corso. La stazione è al buio, come prescrivono le norme sull'oscuramento; solo in qualche stanza è accesa una tenue lampadinetta azzurrata. Pochi i borghesi in attesa, più numerosi i soldati, nessuno col cappello alpino, tutti silenziosi, tutti quieti quieti, riuniti a gruppetti qua e là. Una malinconia. Mi metto a camminare. Passo davanti ai soliti ambienti delle stazioni: sale d'attesa, uffici, comando polizia, deposito bagagli; un cartello inchiodato su una porta avvisa che il posto di ristoro chiude alle venti. Bella roba. Come se alle ventuno nessun soldato in transito possa più aver voglia di un sorso. Vado avanti. Dentro uno stanzone intravedo damigiane. Entro e guardo meglio. Vino. Dodici e dodici. Ventiquattro damigiane di vino. Esco e proseguo. Dopo un po' torno indietro e mi fermo ancora davanti allo stanzone. Ventiquattro damigiane di vino. E la porta aperta. E nessuno intorno che mostri di tenerle d'occhio. Come si fa, dico io, a provocare così la gente. Devo far qualcosa: sono un alpino, ho una reputazione da difendere. Mi avvicino a un gruppetto di militari, soldatini di fanteria, fermi lì coi loro zainetti e le loro valigette ai piedi. – Tu e tu, tu e tu, dico ai primi quattro, con me! Mi guardano con un moto istintivo di resistenza: perbacco, hanno la licenza in tasca e per loro la naia è sospesa. Mica vero, la naia non è mai sospesa e il mio tono deciso e i miei gradi di sergente glielo fanno capire. Mi seguono. Li porto allo stanzone e ordino di prendere due damigiane e di portarle laggiù. – Laggiù in fondo, dietro a quel casotto. Come perché. Perché là devono andare. Su, presto. Le prime due. Prendono su e vanno. Li seguo, pronto a dare l'allarme. Speriamo che non siano imbranati. Non succede niente. Girato il casotto, posano a terra la merce e solo quando gli dico di preparare i gavettini capiscono. Mi guardano prima incerti, poi spaventati, poi furiosi per il rischio che gli ho fatto correre. Ma il grado, la penna nera, la statura e l'esito felice dell'operazione mi salvano; anzi, dopo il secondo gavettino – il reciòto era speciale – mi diventano amici. Sempre col dovuto rispetto, naturalmente. – Ma perché due, sergente, perché due damigiane? Paziente, erudisco i fanti: – Ascoltate. Se la gente vede due soldati con una damigiana di vino, sapete com'è la gente, potrebbe pensar male e magari a qualcuno potrebbe anche venire l'idea di chiedere spiegazioni; ma se i soldati sono quattro e, bene ordinati, di damigiane ne portano due, diventano una squadra di servizio e nessuno sospetta niente. – E poi, continuo concludendo la mia lezione di morale alpina, una damigianetta sola sarebbe stata insufficiente: anche quelli là – e indico i gruppetti di soldati –, anche quelli là hanno le stellette e come noi hanno diritto di bere. Tanto è vero che fra poco passerete la voce. Capito? E che non facciano confusione! I quattro soldatini mi guardano e l'espressione dei loro occhi mi fa sentire una spanna più alto. Quando, una mezz'ora dopo, il mio treno arriva, nella stazione c'è un misterioso – e bene ordinato – va e vieni di soldatini con borracce e gavette; e lì, vicino al comando di polizia, un gruppo ha cominciato a cantare. Parto contento: anche oggi la mia buona azione l'ho compiuta.
e le note vengono aggiornate di quando in quando)
giovedì 5 marzo 2015
Una buona azione
Fino a qualche anno fa sulle pagine del Gazzettino Antonella Santarelli curava una rubrica settimanale, Gente speciale, che raccontava le storie di vita, particolarmente significative, di persone che vivono accanto a noi. Perché fra i nostri vicini di casa, anche se noi spesso non lo sappiamo, in questa nostra moderna società sempre più individualista, dove il senso della comunità rimane relegato nei ricordi della civiltà contadina dei tempi che furono, proprio qui, in mezzo a noi, si nascondono persone speciali. Persone che hanno vissuto fra mille peripezie, superando gli ostacoli che il destino ha posto lungo la loro strada, persone che si sono messe in gioco e hanno imparato a danzare, cucinare, costruire, coltivare, ricercare negli archivi le memorie perdute e renderne partecipi gli ignari concittadini. Quando conobbi Nilo, mi resi ben presto conto che lui era uno di loro. Il brano che riporto qui di seguito è tratto da un libro in cui il nostro narra le vicende occorsegli durante i suoi cinquantatré mesi di naia, che abbracciano praticamente l'intera seconda guerra mondiale. Conobbi Nilo quando decisi di organizzare a Cordenons la presentazione di un libro che avevo collaborato a realizzare, DNA Alpino, e fin dal primo impatto fui travolto dalla sua carica di ironia, ottimismo, insaziabile curiosità e instancabile attivismo. La prima volta che andai a trovarlo a casa non mi stupii di trovare nel suo studio un computer, malgrado la sua non più verde età (nel 2007 Nilo andava per gli 86). Azzardai a chiedere: ma non è che, per caso, utilizzi anche l'email, vero?, per ottenerne un immediato rimbrotto: Eh, come farei senza? Da quel dì lo trovo quasi ogni sera su Facebook a postare, chattare e commentare con l'energia vitale di un adolescente e, di tanto in tanto, vado a fargli visita. Per ricaricarmi.
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