(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

giovedì 15 ottobre 2015

Segreti e magie

La Valcellina è stata per decenni una terra dura e avara con i propri abitanti. Per garantire il sostentamento alle loro famiglie i valligiani dovevano ingegnarsi, ricorrendo a quanto disponibile in natura. Accadeva così che durante l'inverno, sospeso il lavoro dei campi, gli uomini trascorressero le giornate ricavando dal legno dei boschi una variegata serie di utensili. Con la sapienza artigiana delle mani e l'impiego di pochi attrezzi i miei nonni riuscivano a trarre dai ciocchi eleganti cucchiai, coppe per custodire il sale solenni come un rustico Graal, mestoni da polenta, che usati ogni giorno rendevano forti le braccia delle donne clautane e servivano da minaccioso monito nei confronti di chi faceva loro perdere le staffe, pratici cannelli, atti a spillare i vini dalle botti degli osti, sessole da mugnaio per il travaso di farine e granaglie, mestoli per scodellare minestroni dal sapore perduto, fragorose raganelle per la gioia dei più piccini e fusi per filare la lana... Durante la primavera toccava poi alle donne mettersi alla guida di carretti a trazione ... umana e solcare la pianura con i figli al seguito per vender nelle fiere di paese quanto prodotto dai mariti. La merce di queste infaticabili venditrici ambulanti poteva anche servire per compensare i contadini che lungo il percorso offrivano ricovero notturno nella stalla e dividevano con gli ospiti il loro povero pasto, esempio di solidarietà autentica, che fiorisce spontanea nelle circostanze più disagevoli. Forse non tutti sanno che, oltre al vernacolo aspro che risuona fra le case di Claut, quei valligiani ormai antichi (se gli attuali discendenti ne serbino ancora memoria non saprei dire) parlavano anche una sorta di lingua occulta, al dèrbol, con lo scopo per l'appunto di non farsi intendere dagli estranei. Nel lessico di questo codice per iniziati si trovano parole come grimo (vecchio), ribaia (polenta), thirùm (formaggio), bòssera (acqua), madissì (coso/a, generico) e verbi dagli echi esoterici come smurfì (mangiare), cucì (dormire), cosolà ("cosare", generico). Nell'Italia degli anni Sessanta, quando la televisione aveva appena conquistato il posto d'onore nei tinelli, i più piccini andavano a letto dopo Carosello. Anche a casa mia, nella Torino del Boom economico, funzionava così. Le cronache familiari narrano di quella tal sera in cui mia madre, per qualche motivo decisa ad anticipare il mio allettamento, si rivolse con fare circospetto al marito, dicendogli a mezza voce: "Cosolea la madissì, che sennò al cràcol no'l va pì a cucì...". Forte dei miei 36 mesi di vita vissuta, opposi subito un'energica protesta: "Lascia stare la televisione, papà, che deve venire Carosello!". In quel momento gli occhi dei miei genitori proiettarono sulle pareti della stanza un caleidoscopio di emozioni, dalla meraviglia iniziale al terrore di aver generato un piccolo mostro, fino alla rassegnazione che si risolse in una risata mal trattenuta. Da quel giorno loro compresero di non potersi più scambiare messaggi in codice al riparo da orecchi impertinenti. Quella che sembrava essere una precoce vocazione alla crittoanalisi tornò a galla parecchi anni più tardi, quando iniziai ad appassionarmi di sicurezza informatica e studiai la storia dei codici segreti, finendo per farmi rapire dagli indiani navajos mentre a Bletchley Park “Colossus” cercava di violare la macchina Enigma. E se poi mi tuffai con caparbio interesse in un saggio di settecento pagine dove si analizza con stile giornalistico la storia dell'NSA (l'agenzia americana per la sicurezza, la madre di tutti gli spioni), è il caso di dire che, ancora una volta, è tutta colpa di Calimero!

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