(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

martedì 19 gennaio 2016

A mia madre

"Namo casa, mama! Namo casa!". Mi tenevi in braccio, provando a consolare la mia disperazione. Quella disperazione che soltanto i bimbi, da attori innati, sanno rendere con naturalezza in tutta la sua tragicità. Passeggiavamo lungo quel tratto di strada che passa davanti alla scuola elementare, nella tranquillità paesana della sera. Era la mia prima volta a Fanna e avevo due anni. Da lì a poco te ne saresti dovuta ritornare a casa, tu, attraversando l'intera Pianura Padana in un viaggio che, allora, aveva dell'avventuroso. Sarà stato l'inquinamento dell'aria, che anche alla fine degli anni '60 in città si faceva sentire, fatto sta che all'ombra della Mole mi ammalavo di continuo. Così dicevi. E allora, ecco l'idea di affidarmi alle cure della zia, che sarebbe diventata la mia seconda madre. Soltanto per un paio di mesi. L'anno successivo la vacanza friulana si prolungò. E quello dopo ancora di più. Con Marilena avevamo fatto un collage con tutte le cartoline che tu e papà mi mandavate quale pegno del vostro affetto e lo avevamo appeso in camera, al piano di sopra di quella casa che il terremoto demolì alcuni anni più tardi. Una volta scoperto il nascondiglio del citrato, avrei percorso quel poggiolo in legno senza sosta, facendo cigolare le assi sotto il mio peso da scricciolo. Il barattolo dei fiocchi immacolati stava nella stanza a fianco. Appoggiati fra la lingua e il palato producevano una sensazione frizzante e irresistibile. Crac, crac, crac, al piano di sotto si accorsero ben presto di quegli strani scricchiolii. Temendo che ci fossero dei topi a scorrazzare per la casa, salirono e mi colsero in flagrante, in uno scoppio di risate. Quando si andava a falciare l'erba, Gigi, vivandiere, arrivava in bicicletta con la scorta di vino rosso e di gazzosa che ci avrebbero dissetato. Il flacone della lacca e tutto l'occorrente per rimettersi in ordine, una volta terminato il lavoro, stava nascosto fra i rami dei gelsi. E i sorrisi facevano da colonna sonora a quella vita semplice in cui fatica e preoccupazioni non sono mai mancati. In quel cortile trasformato in cantiere senza posa precipitai un triciclo a forma di trattore nella vasca della calce viva. Così, giusto per vedere l'effetto che faceva. Il muro di sassi che conteneva la calce era una barriera insormontabile per la mia altezza, ma proprio per questo ancora più sfidante. Il lunedì si andava al mercato, col "camion" dello zio Giovanni, e io mi tuffavo nel mare di maie e mudande stipato nel furgone, affrontando con gioia quella rapida traversata. Odore di fieno e di lana, profumo dell'aria scaldata dal sole e suono di campane che chiude le giornate. Non è cambiato poi tanto, nel corso degli anni, il paese di Lino, il barbiere, dove i coni gelato erano fatti di cialda zuccherosa. E il destino ci ha tenuto legati a quelle pietre, ai cortili, ai fili d'erba. Oggi tocca a me prestarti il braccio e sostenerti nel tuo cammino affannato, perché ad andar piano non sei proprio capace. E quando il fiato manca, cedi con stizza al peso degli anni, sbuffando per la sosta forzata. Non c'è mai stato tempo per muoversi a passi lenti o per fermarsi a riposare, per ammirare le margherite che ornano i prati primaverili e lasciarsi carezzare l'orecchio dal gorgoglio dell'acqua corrente nei rivi. Ora ci ritroviamo ancora una volta di fronte a quella scuola, sulla stessa strada percorsa quasi cinquant'anni fa. Non piango più, non mi dispero. Non ti stringo più le mie braccine al collo. "Te vegnarà a ciatame, quan che sarai vecia cul baston!". Quante volte la zia Maria mi ha ripetuto il suo bonario richiamo! E con lei ho mantenuto fede all'impegno. Adesso tocca a te. Namo casa, mama, namo casa. Piano piano, senza fretta. Afferra il mio braccio, stringi forte. Ti riaccompagno io.

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