e le note vengono aggiornate di quando in quando)
lunedì 7 marzo 2016
Ulrico
Ho conosciuto Ulrico quando ancora andavo a scuola. La prima volta che venne a casa nostra ricordo che fui io ad accoglierlo al cancello d'ingresso, ma non intendevo farlo entrare se prima non avesse declinato le proprie generalità. Dopo di che si sviluppò un'amicizia che dura ancora oggi (anche se, a dire il vero, Ulrico è morto qualche anno fa). Lavorava in aeroporto, ad Aviano. Sovrintendeva la mensa. L'aronàtica, come diceva lui, che era romano, era stata la sua casa. Aveva iniziato al ministero, poi alcuni mesi di missione in Africa gli consentirono di mettere da parte il necessario per acquistare un appartamento e si trasferì a Cordenons, dato che la moglie, Nerina, era di queste parti. Abitava in via Nannavecchia. Allora io non sapevo che quella via fosse intitolata a un partigiano impiccato due volte alla balaustra del vecchio municipio. L'origine del nome della via rimase a lungo per me un enigma dal suono suggestivo, che aiutava a memorizzarlo. Quando giunsi a Ivrea per la prima volta, notai che in alcuni punti del centro cittadino erano distribuiti dei totem informativi, semplici colonnine che riportavano una foto e qualche riga di nota biografica del personaggio ritratto. Più sotto poi era descritto l'episodio accaduto nel posto in cui il totem era collocato. Ero andato nel Canavese sulle tracce di Camillo e Adriano Olivetti. La storia di Camillo (il padre di Adriano) la ascoltai al Deposito Giordani, in un emozionante monologo di Laura Curino (se ne parla in questo articolo del Messaggero Veneto), che aveva stuzzicato la mia curiosità. Nel capoluogo eporediese è stato allestito un Museo a cielo aperto dell'achitettura moderna (http://www.maam.ivrea.it/) che si sviluppa principalmente lungo l'asse di via Jervis, il cuore pulsante dell'Olivetti. Lì Camillo inizio nel 1908 la sua avventura nella fabbrica di mattoni rossi che sta giusto all'inizio della via, vicino alla stazione ferroviaria. Il figlio poi proseguì l'impresa, fondando la propria attività su una generazione di valore tripartita. Adriano Olivetti sosteneva concretamente un concetto che nel corso del tempo si è poi drammaticamente annacquato: il valore sociale dell'impresa. La “fabbrica”, secondo Olivetti, doveva senz'altro generare valore per gli azionisti (diremmo oggi), perché altrimenti nessuno vi impiegherebbe dei capitali. Ma non era sufficiente. Per poter funzionare, l'impresa deve generare valore anche per i propri dipendenti e per l'ambiente che la ospita. Così si spiegano le innumerevoli attività sociali in cui, fin dall'inizio, l'illuminato imprenditore investì buona parte dei guadagni che la sua impresa fruttava. Non solo case per i suoi operai e asili e scuole per i loro figli. Ma la biblioteca interna allo stabilimento e una pausa pranzo di due ore, perché un'ora doveva servire a consumare il pasto e il tempo rimanente poteva essere impiegato per leggere. Adriano Olivetti fondò una casa editrice “Le edizioni di Comunità”, che portò in Italia un catalogo di opere assolutamente inedite e rivoluzionarie per le idee e i contenuti che proponevano. Oggi finalmente quella casa editrice ha ripreso l'attività e ripropone molti testi che sono di grande attualità. Ebbene, quando arrivai in via Jervis per iniziare il percorso museale, scorsi in un angolo della strada uno di quei totem che già avevo notato in città. Era dedicato a Guglielmo Jervis, prezioso collaboratore di Adriano e partigiano, che venne fucilato dalle SS italiane nel 1944. Leggere la sua storia su quella colonnina stradale diede alla mia visita un altro significato. Ora io credo che anche qui da noi, a Pordenone e dintorni, non manchino gli episodi e le persone protagonisti di quel periodo travagliato da ricordare. Sarebbe bello (e formativo per tutti) se si potesse realizzare qualcosa di simile anche a Cordenons.
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