(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

sabato 9 settembre 2017

Fanna

L'hanno ribattezzato "Curtîf barbeirs", con una di quelle targhe metalliche dallo sfondo marrone. Era la casa di Lino, il Figaro che ha accompagnato la mia infanzia. Quando il terremoto del 1976 distrusse anche la sua bottega, Lino continuò ad accorciare capelli e spuntare mustacchi in un prefabbricato sistemato nel cortile di casa. Del suo locale si era salvata l'insegna, che trovò posto sopra l'ingresso del prefabbricato. Ora è ancora là, un po' discosta dato che la barberia non è più in esercizio, pegno d'affetto di chi lo ricorda. Malgrado la sistemazione precaria, Lino aveva conservato la sua verve e dispensava facezie ai suoi avventori, trasformando un semplice taglio di capelli in un rasserenante intermezzo nei fine settimana in cui si saliva a Fanna. Poche case raggomitolate attorno alla pieve dicata al San Martino della fugace estate novembrina. La quiete paesana rotta dal suono delle campane, l'aria pulita, il saluto cordiale di ogni sconosciuto incrociato per la strada, foss'anche un ragazzino coi calzini corti. Dalla Città Sabauda iniziai a emigrare piccoletto. Si attraversava tutta la Pianura Padana del colonnello Bernacca per arrivare fin quassù. L'aria della metropoli industriale era già allora fin troppo mefitica per la salute di un infante e così fui affidato per qualche mese all'ospitalità della zia Maria. Lo stesso l'anno successivo. E quello dopo, per un periodo che si allungava sempre più. Forse all'epoca non si usava ancora vaccinare i pargoli, fatto sta che di quelle sei malattie infantili non me ne feci sfuggire neanche una e trascorsi lunghe settimane chiuso in camera, sotto la custodia della cugina più giovane. Da Torino arrivavano ogni settimana cartoline augurali, inviate da genitori apprensivi e lontani. Con mia cugina sfruttammo la comune quarantena per disporle su un grande tazebao. Realizzare quell'allegro mosaico fotografico ci tenne impegnati per un po' e nel frattempo giunse a scadenza la moratoria sanitaria. Il posto telefonico pubblico si trovava nel bar di Mario. Il chiamante preavvisava l'oste, che inviava il garzone di bottega ad informare il destinatario dell'appuntamento telefonico e così era possibile tenersi in contatto da un capo all'altro della cerchia alpina. In quel tempo la Bràida per me non rappresentava un qualsiasi terreno incolto, ma era IL luogo magico del divertimento. Nella Bràida si andava a falciare l'erba e i covoni di fieno diventavano terreno di gioco e capriole. La fila dei gelsi, che segnava il confine tra due appezzamenti, offriva temporaneo ricovero al flacone della lacca e a quanto necessario alla toilette delle signore, ché una volta concluso il lavoro bisognava pur rimettersi in ordine per rientrare in paese. Gigi vivandiere arrivava in bicicletta a recar la miscela dissetante fatta di vino e gazosa. Si pranzava al sacco e si rideva. Ripercorro in questi giorni i luoghi e le memorie d'infanzia mentre porgo il braccio alla mia vecchina bianca e la accompagno a far due passi per scaricare la tensione. Mano nella mano, come due fidanzatini. Il paesaggio è sufficientemente bucolico per ispirare la giusta dose di romanticismo. Sono dovuto entrare a gamba tesa e scompigliare il suo disordine perché da sola non ce la fa più. La mia intrusione l'ha agitata, non è il tipo da sentirsi dire cosa fare e cosa no, da farsi mettere a soqquadro la casa dal primo intruso che passa, anche se l'intruso è il figlio adorato. Non è ancora disposta a cedere la propria indipendenza, ad abdicare dal suo ruolo, a passare le consegne. Ma il destino si fa beffe di capricci e desideri, ridisegna la mappa delle priorità senza preavviso e contro le Sue decisioni non è previsto appello. Ci troviamo così a ruoli invertiti, io a dover blandire, proibire, accudire, consolare, carezzare, cedere all'ostinazione. E lei, la mia vecchina bianca, a protestare, a chiedere smarrita, a sbuffare, a puntare i piedi per poi lasciarsi convincere e dopo appena pochi minuti ritornare sui suoi passi e ricominciare il gioco dei perché. Per pura fatalità (o forse no, chissà) questo spettacolo va in scena nel luogo in cui tutto ebbe inizio, in una sorta di conclusione perfetta di un ciclo. Alfa e omega di un gioco dell'oca cui entrano in campo i sentimenti più veri.

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