(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

venerdì 15 settembre 2017

Il caso non esiste

Quelle che noi chiamiamo "coincidenze" sono in realtà "risorgive": vi è un disegno preordinato e misterioso che scorre nel sottosuolo delle nostre esistenze e assume la forma di una rete di fiumi carsici. Una rete impalpabile che tiene uniti nodi spazio-temporali apparentemente scollegati. Ennesima prova della nostra pochezza all'interno del Cosmo. Nel dicembre del 1990 mia madre era a letto immobilizzata e lo sarebbe rimasta per i successivi tre mesi. Era stata investita da un'auto mentre con la sua bicicletta solcava sicura le vie di Pordenone in quel brutto incrocio all'altezza delle casermette di via Molinari. L'investitirice stava andando al lavoro, al vicino ospedale civile. L'incidente procurò a mia madre la frattura di qualche vertebra e, come usava allora, l'infortunato in questi casi veniva mummificato in uno scafandro di gesso che andava dal collo all'inguine. In quel tempo io mi trovavo a Ravenna per lavoro. Stavo completando la fase di "ripasso" propedeutica a quello che la Banca chiamava "esame dell'esecutivo", che avrei dato a Milano. Chiamando a casa, una sera, accolsi con sorpresa all'altro capo del telefono la risposta della zia Maria, che da Fanna si spostava raramente, dato che in genere eravamo noi ad andare a trovarla. Mi disse che era scesa per una visita di cortesia e mi passò mio padre, perché la mamma era fuori. Quando, nel fine settimana feci rientro a casa come ogni quindici giorni, e vidi la zia Maria che veniva ad accogliermi, intuii che ci doveva essere qualcosa sotto. Per tre mesi la zia si trasferì a casa nostra, accudendo sorella, nipote e cognato. Qualche anno dopo mia madre avrebbe avuto modo, purtroppo, di ricambiare.

Dopo essermi accomiatato dal Duca-Conte e dal suo fortino di via Sile, mi attendevano al Monolite, in piazza Scala. Avevo anticipato la notizia dell'infortunio ai miei referenti milanesi, chiedendo che se ne tenesse conto per la mia successiva assegnazione. Superato il consueto labirinto di tappeti rossi, con le "stazioni di posta" presidiate da commessi in alta uniforme che parevano direttori generali, giunsi alle stanze del Personale. Feci presente che non pretendevo certo di finire a Pordenone, ma che per la durata della convalescenza di mia madre avevo necessità di una destinazione che mi consentisse, al bisogno, di tornare a casa in giornata. Non rientrava certo nella prassi consolidata la possibilità di negoziare le sedi di lavoro e di porre condizioni su tempi, luoghi e modalità delle proprie destinazioni. Ma l'Azienda era ben consapevole che il suo investimento più importante e con il più sicuro ritorno erano i propri Collaboratori, e poiché ci credeva sul serio non mancava di dimostrarlo. Il dott. Mignosa si prese mezz'ora di tempo e tornò offrendomi tre alternative: Trieste, Venezia, Treviso. Conoscendo ormai a menadito la rete ferroviaria, tratte orari e coincidenze, a causa della mia vita da globetrotter, non ebbi esitazione a decidere per la Marca, rinunciando al più sicuro prestigio delle altre due storiche sedi. Quella che io consideravo una sistemazione temporanea non era invece stata scelta a caso e mi riserverà poi una sorpresa. Da quel momento l'intera Sinistra Piave dovette imparare a sopportarmi. Per lunga pezza.

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