(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

venerdì 22 settembre 2017

Sono soltanto parole

Fra di loro i miei genitori han sempre parlato nel friulano di Claut, che è più aspro e cavernoso del folpo che si parla a Cordenons, mentre a me si rivolgevano abitualmente in italiano, fatte salve le invettive. Dato che la valle non ha mai offerto grandi possibilità di lavoro, i clautani sono abituati a emigrare per cercar fortuna, in Italia e all'estero. Agli inizi del secolo scorso molti di loro, in genere le donne, si inventarono venditori ambulanti e percorsero a piedi distanze che oggi giudicheremmo irraggiungibili. Così fecero anche le mie nonne, portandosi appresso i figlioli più grandi e pesanti sacchi di juta ricolmi degli utensili che gli uomini avevano intagliato nel legno durante l'inverno. Queste donne avevano elaborato una sorta di linguaggio in codice per comunicare fra loro senza essere intese dagli estranei, una sorta di gergo nel dialetto, che talvolta utilizzavano anche i miei genitori. Sul finire degli anni Sessanta i bambini andavano a letto dopo Carosello e io non facevo eccezione. Una sera, però, per qualche motivo mia madre aveva deciso di anticipare il coprifuoco e si rivolse con nonchalance a mio padre pronunciando la seguente formula esoterica: "Cosolea la madisì, che sennò al cràcol nol va pì a cucì". Nel gergo di cui dicevamo "cosolà" è forma verbale generica che indica una qualche azione da compiere. In questo caso, spegnere. "Madisì" indica genericamente un oggetto. In questo caso, il televisore. "Cràcol" sta per "tizio" e "cucì" è forma indicativa del verbo dormire. In sostanza, il subdolo avvertimento rivolto a mio padre aveva l'intento di fargli spegnere il televisore prima che iniziasse la celebre trasmissione. In caso contrario, per ottenere il mio allontanamento se ne sarebbe dovuta attendere la conclusione. All'epoca potevo avere due o tre anni, ma non esitai a intervenire in maniera decisa per neutralizzare il proditorio attentato: "Lascia stare la televisione, papà, che deve venire Carosello!" Superato l'iniziale smarrimento, i miei si guardarono e scoppiarono a ridere. Capirono in quell'istante di avere a che fare con un osso duro, che avrebbe loro dato parecchio filo da torcere.

Pur comprendendo molto bene il dialetto dei miei (come ho avuto modo di dimostrare fin da subito) non l'ho mai parlato. Da piccolo non mi piaceva la musicalità gutturale di quelle strane parole, non apprezzavo la spaventevole dinamica (ossia l'alternarsi dei "piano" e "forte") che contraddistingue quella parlata, giudicandolo un modo di esprimersi sgraziato e selvatico. In seguito, la mancanza di pratica quotidiana mi rendeva impacciato tanto nella pronuncia che nel trovare le parole. Quindi vi rinunciai, senza troppi sensi di colpa. Tutt'al più poteva capitarmi di usare qualche singola parola, occasionalmente, per sottolineature ironiche. Ora che comunicare con la mia vecchina bianca diventa ogni giorno più difficile, è affiorata spontaneamente, in maniera del tutto naturale e istintiva, l'abitudine di rivolgermi a lei nella lingua materna e questa soluzione mi sta facilitando il compito. Crea empatia immediata, accresce la fiducia in maniera evidente, migliorando una pur difficile relazione, ora che tocca a me regolare, organizzare, vietare, incitare, consolare. Proprio come si fa con un figlio, in un ribaltamento di ruoli straniante che non manca talvolta di avvilire. Ancora una volta sto sperimentando la forza intrinseca delle parole, che al di là della loro funzione di "veicolo" con cui trasmettiamo informazioni, sono in grado di intimorire, ferire o viceversa facilitare l'approccio con l'altro. E ancora una volta emerge prepotente l'impressione di essere giunti alla conclusione di un ciclo, dove finalmente si compiono le cose rimaste in sospeso e si completa ciò che era rimasto imperfetto.

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