(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

giovedì 7 settembre 2017

Veglie

Le notti di guardia in Charlie Bravo erano gelide e interminabili. Charlie Bravo è la caserma di Aosta intitolata a Cesare Battisti dov'erano acquartierati i due battaglioni AUC della SMALP. Nell'alfabeto fonetico NATO, in uso ai militari dei Paesi occidentali, la lettera “C” è “Charlie” e la “B” corrisponde a “Bravo”. Gli Allievi Ufficiali di Complemento della Scuola Militare Alpina lo imparavano fin dai primi giorni di corso. Quando in Italia esisteva ancora la leva obbligatoria, alcuni selezionati giovanotti in età da militare potevano offrirsi volontari per frequentare un corso della durata di cinque mesi e mezzo, al termine dei quali i superstiti avrebbero potuto fregiarsi della stelletta da sottotenente ed entrare così nel rango dei Signori Ufficiali, se pur soltanto per i successivi dieci mesi. A questi ufficiali ragazzini in servizio di leva era assegnato il grado più basso nella categoria degli “ufficiali inferiori”, di cui il sottotenente rappresentava un ulteriore sottoinsieme: l'ufficiale subordinato. Scorrendo il medagliere nazionale si scopre che sono parecchi i comandanti ragazzini caduti sui fronti di tutte le guerre, perché i sottotenenti sono sempre stati, in fondo, parte della truppa. La selezione che ammetteva ai corsi i giovanotti più istruiti (era necessario avere ottenuto almeno il diploma di maturità) era piuttosto severa, tanto che i candidati non esitavano a ricorrere alle classiche italiche raccomandazioni per ottenere un posto utile in graduatoria. La circostanza sarebbe poi stata periodicamente rinfacciata agli Allievi durante l'impegnativo addestramento: non solo siete volontari, ma vi siete pure fatti raccomandare per venire qua, quindi ora non vi lamentate, stringete i denti e andate avanti! Il mio era il corso “invernale”, che si svolse fra la metà di ottobre e la fine di marzo dell'anno successivo. Ad Aosta durante l'inverno le temperature sono rigide e la neve cade abbondante. Durante i turni di guardia ogni tentativo di ripararsi dal freddo doveva dimostrarsi vano. Due o anche tre paia di calzettoni di lana, indossati uno sull'altro, che comprimevano dolorosamente il piede nello scarpone d'ordinanza; mutandoni di lana portati sotto i leggeri calzoni di tela dell'uniforme da servizio e combattimento (S.Cbt.); maglioni di lana in tinta rigorosamente verde-oliva, col loro collo alto a salvaguardare l'ugola; berretto tattico di lana (anche lui verde-oliva) da portare sotto il cappello alpino; doppia razione di guanti di lana monocromi. E a tenere insieme tutto quanto, infine, un pesantissimo cappottone “da scolta” che impediva i movimenti. Ma il gelo valdostano se ne fregava e penetrava ogni strato posto a presidio della temperatura corporea, rendendo la consistenza di tutti quei chili di lana pari alla carta velina.

Durante le interminabili notti di guardia potevo contare sulla compagnia della luna, di tanto in tanto. Molto più fedele all'appuntamento notturno era una finestrella illuminata che mi accompagnava fino all'alba. La finestra apparteneva a un condominio che si trovava poco distante dalla caserma, la cui sagoma si stagliava sul profilo dei monti innevati. Rimaneva accesa per tutta la notte e, dopo essermi tanto interrogato sulle possibili ragioni di quella prolungata veglia, giunsi alla conclusione che si trattava di un lupanare. Casa di appuntamenti, accogliente rifugio notturno per incontri di amore mercenario. Chissà se era veramente così o non si trattava, piuttosto, della modesta e ordinata abitazione di un vecchino insonne, di quelli con la gondola sopra il televisore, col centrino di cotone bianco lavorato all'uncinetto...

E ora sono qui a vegliare la mia vecchina, bianca e sofferente, con la voce flebile, la mano delicata che pare fragile come una bambola di porcellana. Le ingiurie del tempo non hanno sottratto serenità al suo sorriso. Si aggrappa fiduciosa al mio braccio per fare pochi passi e abbandonarsi poi stremata sulla seggiola più vicina a trovare un breve ristoro. “Andiamo a casa! andiamo a casa!” Quando era il mio turno di recitare con ostinata insistenza questo ritornello, le cingevo il collo con le mie braccine infantili: “Namo casa, mama! Namo casa!” La perentorietà nel tono della voce è la stessa, ma ora le parti si sono invertite. Tocca a me consolare la sua delusione per un desiderio che non posso avverare. Sono io a tenerle la mano, a sfiorare la guancia con le dita in una carezza risarcitoria. E' il mio turno di guardia, il momento di restituire una parte di quelle infinite attenzioni amorevoli che una madre rivolge al proprio figliolo. E per quanto lunga possa essere, questa notte non durerà mai a sufficienza per consentirmi di ripagare tutto il suo affetto. A differenza delle mie notti di guardia nell'inverno valdostano, so che che questa non sarà interminabile. La luce che illumina questa finestra si spegnerà e la sentinella completerà il suo turno un po' più sola.

Post scriptum.
Una volta superata l'aspra selezione del corso, i comandanti ragazzini giungevano al reparto, dove, a turno, si cimentavano fra le altre cose nel ruolo di Ufficiale di Picchetto, il Gran Portinaio della caserma. A termini di regolamento l'Ufficiale di Picchetto non dorme, ma riposa, vestito. Sulla scrivania della mia adolescenza, fatta di quel legno rivestito da una finitura lucida molto anni '60 ci sono alcune foto di famiglia. Tra di esse rivedo il volto di quel ragazzino dallo sguardo severo su viso imberbe. Indossa l'uniforme della festa, col nodo alla cravatta approssimato, gentile omaggio di un suo compagno meno imbranato nell'impresa e gelosamente conservato intatto nei mesi. Il rigore della posa, la sobrietà del bianco e nero, la solennità del piccolo portafoto in marmo nero di Carrara sembrano suggerire la didascalia più appropriata: eris portinaius in aeternum.

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