Nella primavera del 1990 mi trovavo a Milano per frequentare il corso titoli, assieme a una quindicina di altri colleghi provenienti un po' da tutt'Italia. Del gruppo faceva parte un genovese giocherellone, provetto accompagnatore con la chitarra acustica e sorprendente esecutor di trallallero; un terzetto di romanacci, tra cui un aspirante cantautore con apprezzabili doti musicali; un napoletano dall'ironia sferzante; un parmigiano che avrebbe presto assunto incarichi di rilievo nel nostro centro contabile; una bresciana, una goriziana, una meneghina; un giovane novarese sosia del ministro De Michelis che avrei ritrovato più in là a Pordenone. E altri. Il corso era piuttosto impegnativo, tanto dal punto di vista tecnico/procedurale che normativo: si trattava per molti di noi (quasi tutti) di entrare in un mondo sconosciuto, affascinante e complicato, del quale avremmo dovuto diventare esperti, ognuno per ragioni diverse in relazione al proprio sviluppo professionale. L'istruttore era assolutamente all'altezza del compito ed ebbi modo di avvalermi della sua consulenza tecnica più volte, negli anni seguenti. Lo spirito di gruppo non faticò a emergere: 1) per le capacità di formatore del bravo Capelli, 2) perché in ciascuno di noi (alcuni davvero giovani e con scarsa esperienza di banca) si era già comunque sviluppato un solido senso di appartenenza all'azienda, che evidentemente ci sapeva fare, 3) perché l'orgoglio di far parte di un'organizzazione solida e collaudata ci faceva sentire sicuri e generava in noi una naturale empatia. Iniziarono ben presto a circolare in classe delle canzoncine, parodie di brani famosi, in cui con grande autoironia prendevamo in giro l'istruttore, noi stessi e la grande organizzazione (conservo ancora le prove documentali, che ho recentemente riesumato). Le capacità canore non mancavano, la verve dissacrante neppure. L'accompagnamento musicale (per le serate conviviali) era garantito. Per allentare la tensione e la pesantezza delle lunghe ore di lezione, si improvvisavano così di tanto in tanto coretti goliardici che contribuivano a cementare la coesione del gruppo. La cena di fine corso fu epica. Per meglio dire, il dopo cena. Giunto l'orario di chiusura del locale in cui avevamo cenato, ci trasferimmo in riva al Ticino, rubammo della legna secca, accendemmo un focherello e... facemmo l'alba suonando e cantando fino a perdere la voce. Il giorno successivo, in aula, fu concessa una moratoria generale di alcune ore perché potessimo tutti riprenderci dalla notte brava. All'epoca i telefoni cellulari non erano così diffusi come ora e, comunque, la tecnologia corrente non consentiva di realizzare dei video così facilmente come oggi ciascuno di noi può fare. Altrimenti, se ne sarebbero viste delle belle.
In sè, le partite di calcetto, le cene aziendali, i contest di barzellette e i video amatoriali autoprodotti non sono iniziative esecrabili. A condizione che siano il frutto spontaneo di un clima coeso e collaborativo, in cui l'appartenenza è un risultato acquisito e preesistente. Il problema è che i moderni team builders credono sia davvero possibile alimentare lo spirito di squadra per mezzo di queste sciocchezze. E ci costruiscono su perfino le loro belle teorie. Nella società dell'apparenza si fa gruppo istantaneamente, come con l'idrolitina. Non c'è tempo per costruire vincoli solidi e permanenti attraverso la quotidiana fatica dell'impegno e della disponibilità reciproci I guru del coaching hanno le loro magiche ricette idrosolubili, che vendono a caro prezzo agli instant manager delle instant company. E in questo fatuo carosello, fra guitti e imbonitori, la fragilità dei risultati non tarda a mostrarsi, giorno per giorno, smascherando l'inefficacia di tanto illusorie soluzioni.
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