(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

lunedì 30 luglio 2018

Soi lât su par che scjalute

Inizia così una canzonaccia da osteria col testo in friulano, buona per rallegrare gli amici che fanno festa. La ascoltai per la prima volta a un veglione di capodanno a Sedrano quando avevo 17 anni. Il bar-trattoria “Stella” si trovava allora in paese, in un vecchio edificio che dava sulla strada stretta e serpeggiante. Nessuna possibilità di parcheggio e quando uscivi era meglio fare attenzione alle auto in transito. Soi lât su par che scjalute/ma 'l barcon 'l ere siarât/jò j ai dit mandi ninine/e 'l barcon si è spalancjât. Ci misi poco a impararla, includendola negli intermezzi corali che avrebbero accompagnato le successive innumerevoli “zingarate” con Sergio e i Gitani. Nel 1983 frequentavo il quarto anno della ragioneria, ma avevo già accumulato il repertorio di due fisorchestre e alcuni anni di esperienza sul palcoscenico: ero dunque pronto ad affrontare l'impegno di un veglione di capodanno. Alcuni amici mi fecero conoscere Stefano, il chitarrista, e Massimo, alla batteria, proponendoci la serata di Sedrano. Non c'era molto tempo per prepararci al debutto, così imposi ai miei due consorti un calendario serrato di prove, necessario per sostenere il programma che avremmo allestito. Almeno tre volte alla settimana ci trovavamo per un paio di ore a casa di Stefano, che aveva trasformato il seminterrato in una sala insonorizzata degna di uno studio di registrazione. Porta, pareti e soffitto della stanza erano stati foderati da uno strato di gommapiuma spesso almeno 10 centimetri su cui furono fissati dei sottili pannelli traforati; un numero indefinito di cartoni per le uova ricopriva le superfici e tutto era stato verniciato di nero. Eravamo galvanizzati. Fu lui a proporre il nome del gruppo, Wojtyla-Express, che venne scritto su un cartone applicato alla grancassa della batteria. La sera del 31, poi, non ricordo con quali mezzi abbiamo raggiunto la trattoria, ma di certo alla guida doveva esserci Stefano, perché noialtri eravamo ancora minorenni, mentre lui, che aveva un anno di più, era già patentato. Conservo ancora una musicassetta su cui registrai una parte della nostra esibizione, soltanto un’ora delle tre o quattro di maratona musicale con cui puntavamo a sfiancare l’allegra brigata di compaesani che ci aveva assoldato. Il rumori di fondo sono quelli di una festa scatenata, la qualità della registrazione lascia a desiderare e anche la nostra performance, riascoltata con orecchio critico, mostra tutti i segni di un dilettantismo acerbo e gioioso. Il successo ci arrise e ci lasciammo travolgere dall’entusiasmo. In seguito il ritmo delle prove poté essere allentato e a intervallare le infinite ripetizioni di musica da balera non sempre gradita a dei giovani esecutori Stefano si esibiva di tanto in tanto in assoli rigeneranti. Come quella volta che in soffitta, a casa di Massimo, ci lasciò a bocca aperta suonando Samba pa ti, di Santana. Anche per ammortizzare il tempo e la fatica impiegati per formare il nostro repertorio, allietammo in seguito qualche altra serata conviviale e un paio di matrimoni, poi Massimo gettò la spugna e venne sostituito da Italo, che già partecipava da uditore alle prove dell’orchestra e forniva supporto logistico ai nostri concerti. Più avanti, imprevisti sentimentali e impegno scolastico si frapposero a ostacolare le nostre ambizioni musicali. Il servizio militare, a cui fummo ben presto tutti chiamati, diede il colpo di grazia. Per Stefano la musica era una passione. Ottenuto il diploma di ragioneria, e soddisfatte così le aspettative familiari, poté trasferirsi a Cremona e iscriversi alla scuola di liuteria, sobbarcandosi altri cinque anni di studio. Lo ritrovai qualche tempo dopo, nel piccolo negozio di musica che aveva aperto vicino casa mia. Mi fece visitare pieno di orgoglio il suo laboratorio, spiegandomi che i macchinari per la lavorazione del legno li aveva “adattati” lui, e mi mostrò le prime chitarre elettriche che aveva costruito. Finché rimase aperta la sua bottega, passavo a trovarlo volentieri e lui non perdeva occasione per indurmi a far parte di qualche nuovo gruppo. Il lavoro non mi lasciava molto tempo da dedicare alla musica e io tergiversavo, ma un paio di volte cedetti ancora alla tentazione e ci ritrovammo di nuovo in una sala prove, alle prese con mixer, cavi e amplificatori. Non si andò oltre, almeno per me, ma l’insistenza con cui cercavamo tempo per tempo di rimetterci in gioco assieme prova la stima che ciascuno aveva nei confronti dell’altro e l’amicizia, facilitata dal suo carattere aperto, dalla simpatia e dalla disponibilità offerte naturalmente. Qualche settimana fa ho letto su Facebook che era morto ed ho subito pensato si trattasse di un’omonimia. Non potevo credere che fosse davvero lui. Ho recuperato allora quella vecchia musicassetta e ne ho riversato il contenuto in un CD, prima che l’usura del tempo la danneggiasse. Ho riascoltato la musica di quella notte di festa e ho rivisto un ragazzo dal piglio guascone, coi ricci ribelli e gli occhi furbi, capace di emozionare toccando le corde della sua chitarra. Lo ricorderò così, con i suoi larghi sorrisi, le battute di spirito e l’allegria sprovveduta dei vent’anni.

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