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giovedì 23 agosto 2018

Il dovere d’iniziativa e la cultura del “no se pol”

Qualche giorno fa, curiosando sul sito di Repubblica, sono stato attirato dal titolo di un post appena pubblicato sul blog di Concita De Gregorio (“La mia dipendente e l’arbitrio delle banche”). Si trattava della testimonianza del manager di una media impresa lombarda che riferiva le difficoltà incontrate da una dipendente della propria azienda nell’aprire un c/c bancario sul quale farsi accreditare lo stipendio. La signora è una richiedente asilo a cui i diversi sportelli bancari e postali ai quali si era infruttuosamente rivolta opponevano un’obiezione di natura pratica: il suo codice fiscale non viene accettato dalle procedure. Bisogna sapere che le norme attualmente in vigore prevedono che ai soggetti richiedenti asilo nel nostro Paese venga attribuito un codice fiscale provvisorio fintanto che la competente commissione territoriale non abbia espresso parere favorevole sulla loro richiesta (a questo link è disponibile la comunicazione di servizio n. 8 del 26/7/2016 dell’Agenzia delle Entrate). Siccome i tempi per il riconoscimento del diritto di asilo solo mediamente piuttosto lunghi, si è voluto in tal modo consentire ai migranti in attesa di risposta di essere regolarmente assunti, con l’apertura di una posizione individuale INPS. Il problema è che questo CF provvisorio, anziché essere composto da 14 caratteri alfanumerici, ne conta soltanto 11. E sono tutti numeri. Ciò comporta la necessità di adeguare le procedure informatiche tanto dei diversi istituti di credito che delle Poste, perché, normalmente, una persona fisica dispone di un CF alfanumerico e i programmi prevedono dei controlli di congruità non eludibili sui dati inseriti allo scopo di prevenire possibili errori di digitazione. Tenuto conto degli innumerevoli e continui aggiornamenti a cui devono essere assoggettate le procedure informatiche delle banche, tuttavia, è evidente che si proceda secondo priorità. E fino a quando il numero dei casi da trattare non abbia raggiunto una sufficiente massa critica, non deve stupire che simili adeguamenti procedurali vengano procrastinati.

Verso la fine dello scorso anno lessi un appello pubblicato sul Facebook da un’utente sconfortata dalle medesime difficoltà, che aveva l’impressione di scontrarsi con un muro di gomma. Non ero allora a conoscenza delle particolarità di queste situazioni, ma non mi ci volle molto a capire che il problema era esclusivamente tecnico e pertanto risolvibile. Se le procedure non sono aggiornate, questo non significa che l’operazione non si possa fare. Ci saranno senz’altro delle modalità alternative extra standard. Questa la conclusione a cui giunsi. Pur non essendo presente al lavoro in quel periodo, fu sufficiente coinvolgere un’amica fidata per sottoporre la questione ai servizi tecnici della banca e ottenere una veloce risposta che indicava il percorso alternativo da seguire. E anche il manager della media impresa lombarda, dopo lungo peregrinare e grazie alla disponibilità di qualche interlocutore più avveduto, è finalmente riuscito a far sì che la dipendente della propria azienda potesse aprire l’agognato c/c. Commentando la vicenda sul blog della De Gregorio, scrissi che situazioni del genere si verificano più o meno ogni giorno, in uffici pubblici e privati, e che la differenza alla fine la fanno sempre le persone. Alla mia annotazione rispose un signore qualificatosi come ingegnere informatico che si disse non del tutto d’accordo con me. Le persone agiscono nell’ambito di organizzazioni, sostiene il mio interlocutore telematico, con regole e contesti definiti. Non è colpa delle persone le regole o i contesti non permettono di fare una certa cosa.

È senz’altro vero quanto affermato dall’ingegnere informatico. Anche senza aggiornare i propri applicativi, la banca potrebbe emanare istruzioni ufficiali su come trattare il caso di specie, traendo così d’impiccio gli operatori allo sportello, che avrebbero un confortante riferimento normativo. Io però mi chiedo: ma allora, di fronte a situazioni non codificate è forse giustificata l’inerzia? No se pol, direbbero a Trieste. Fine della discussione. Se dovessimo riferirci all’atteggiamento tenuto da molti impiegati pubblici, per quella che è la mia esperienza effettivamente la soluzione sembrerebbe essere proprio questa. Un rigido appiattimento formale. Si fa quel che è previsto, nel rispetto rigoroso dei protocolli dati. Il resto semplicemente non esiste, o è sbagliato e va reso conforme. È questa una forma mentis ahimè piuttosto diffusa che produce sovente fastidiosi disservizi.

Fra i tanti episodi in cui mi sono trovato coinvolto, posso riferirne uno che mi pare a questo proposito emblematico. Qualche tempo fa il mio medico di base mi prescrisse una serie di esami diagnostici che l’anagrafe rende ormai routinari. Fra questi uno in particolare richiedeva la verifica su 3 campioni. Presentatomi all’accettazione della struttura che avrebbe eseguito le analisi, mi sento obiettare dall’impiegata allo sportello che no, qui il medico ha sbagliato: a me per questo esame servono 3 codici, mentre sull’impegnativa ne viene riportato uno solo, vede? No se pol. Abbozzo e mi rassegno a posticipare l’accertamento. Quando poi informo dell’accaduto il mio medico curante, mi tocca questa volta scontrarmi con la sua sorpresa: il codice dell’esame è corretto; ti posso rifare l’impegnativa ma tale e quale la precedente. Per non dovermi imbattere in nuove difficoltà, decido di rivolgermi ad altra struttura. Sottoposta la nuova impegnativa a una diversa impiegata, noto che questa inizia diligentemente a registrarla senza batter ciglio. Siccome nel frattempo avevo maturato anch’io le mie conclusioni, provo a verificarne la validità. “Mi scusi – chiedo – ma non è che per caso nell’inserire i dati lei deve ripetere per 3 volte lo stesso codice?”
“Certo!” replica stupefatta la signora dell’accettazione.

Verso la fine del 1986, poco prima di partire per Aosta, dove avrei iniziato a svolgere il mio servizio militare, feci un salto in biblioteca civica a Pordenone. All’epoca internet non era così diffusa e per consultare la Gazzetta Ufficiale il sistema era quello. Avevo letto su un quotidiano che da poco era entrato in vigore il nuovo Regolamento di disciplina militare e me ne feci fotocopiare il testo. Dovendomi inserire in un contesto non conosciuto, volevo informarmi. Fra quelle norme, ve ne sono alcune meritano di essere tenute in considerazione come punti di riferimento validi per tutti e che io ho fatto miei. L’art. 13, per esempio, che tratta del dovere d’iniziativa. “Il militare ha il dovere di assumere l’iniziativa quando manchi di ordini e sia nell’impossibilità di chiederne o di riceverne o quando non possa eseguire per contingente situazione quelli ricevuti quando siano chiaramente mutate le circostanze che avevano determinato gli ordini impartiti (...)” E ancora: Il militare, specie se investito di particolari funzioni e responsabilità, non può invocare a giustificazione della propria inerzia, di fronte a circostanze impreviste, il non aver ricevuto ordini o direttive. Che è esattamente quello che fa chiunque si trinceri dietro l’atipicità di una situazione. Non è previsto. No se pol, no gavemo, la provi in Friùl.” (i triestini conservano fortunatamente una buona dose di autoironia). Agire d’iniziativa richiede un’assunzione di responsabilità e un atteggiamento critico (qualcuno, impiegando un brutto neologismo, direbbe oggi “proattivo”). Occorre valutare le circostanze e saper comprendere le ragioni della straordinarietà. Non basta compilare le caselle vuote di un modulo. Bisogna poi riuscire a individuare una possibile soluzione nel rispetto delle regole date. Missione faticosa e impegnativa, spesso, ma certo non impossibile. Sicuramente invisa a chiunque interpreti il proprio ruolo come quello di mero esecutore privo di qualunque autonomia. Va riconosciuto che in molti contesti organizzativi, tanto pubblici che privati, l’iniziativa non viene particolarmente incoraggiata, quando non esplicitamente osteggiata, ingabbiando gli innumerevoli processi operativi entro schemi prefissati che vengono troppo spesso interpretati come vincoli invalicabili. Per incapacità, semplice pigrizia, disinteresse o meschino calcolo di convenienza. Nel caso riportato dal manager lombardo, che ha aperto il nostro ragionamento, conta probabilmente anche una certa “debolezza contrattuale” delle controparti (migranti richiedenti asilo), ma io credo che si tratti di un’incidenza marginale, prevalendo in molte persone l’abitudine a un esercizio acritico e pedissequo delle proprie funzioni (a questo link si può trovare un’altra significativa testimonianza che rasenta il grottesco). E pensare che, senza scomodare l’esercito e i suoi regolamenti, basterebbe davvero interrogarsi sul senso del proprio ruolo, comprendendo che esso risiede nel fornire risposte, soluzioni, servizi ai clienti/cittadini/utenti che di volta in volta si rivolgono a noi e non si esaurisce nel formale rispetto delle regole.

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