(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

domenica 11 novembre 2018

San Martino

Addio, monti sorgenti dall’acque... Beh, veramente qui c’è a malapena l’acqua di qualche rugo che si riscuote giusto in caso di alluvioni, ma il saluto ai monti ci sta. La pieve di Fanna è dedicata a San Martino e ogni anno, col principiar di novembre, se ne celebra la festa. Nei fine settimana brulicano le bancarelle per le vie e ardono i fuochi degli ottimi chioschi gastronomici. Artigiani e bricoleur di ogni età propongono le loro meraviglie; gli amatori delle mele antiche raccolgono prenotazioni da chi voglia portarsi a casa piante dai nomi più melodiosi, che saranno consegnate la primavera successiva; gli alpini alle griglie dispensano pasti saporiti. Quando eravamo contadini, non molti anni fa, la ricorrenza veniva tuttavia attesa con qualche apprensione dai coloni. L’annata agraria, mi raccontava il bravo professore di diritto della ragioneria, iniziava l’undici di novembre ed era in quella occasione che i contratti di mezzadria venivano rinnovati (oppure no). Per i nostri nonni l’espressione “fare San Martino” aveva perciò il gusto amaro del trasloco subìto. Significava prendere armi e bagagli e abbandonare la cascina per cercar fortuna altrove, presso un altro “padrone”. Con la mia vecchina bianca ho fatto anch’io quest’anno San Martino, lasciando con mestizia il rifugio pedemontano che mi ha accolto negli ultimi mesi per tornare in pianura, tra lo smog e l’isteria quotidiana. Giacomo ha rinominato la piazzetta su cui affaccia la sua osteria applicando un cartello UNI A4 all’inferriata di una finestra. Vi si legge: largo 3 aprile 1077, quale monito anche agli occasionali avventori, ché di storia e tradizioni qui non siamo digiuni. Le sere d’estate io e la mia vecchina abbiamo preso l’abitudine di uscire per una passeggiata digestiva, dopo cena. La nostra vasca si svolge a passo di rogazione lungo un anello circolare che parte dal bar di Jacu, dove all’aperto si sorbisce un veloce... aperitivo. Trangugiato il gingerino, costeggiamo la pieve adiacente per poi traguardare la locale sede A.N.A., dove si consulta la bacheca esterna e si commentano gli eventi annunciati. Giunti di fronte all’ufficio postale si nota l’altezza dell’erba, lamentando il ritardo con cui viene tagliata e si prende nota con rammarico della morte del nocciolo antistante, visibilmente seccato. Si tessono le lodi del giardiniere che con grande diligenza si prende cura del praticello di una seconda casa, quasi sempre chiusa e occasionalmente rianimata dai suoi esteri abitanti. Viene la volta del panificio, dove, a seconda dell’orario, si può trovare la fontanella esterna attiva, col rivolo d’acqua che scende da una riproduzione di quelle vecchie pompe manuali che si vedevano sul fianco dei lavatoi domestici nelle corti d’antan, oppure spenta. Appoggiati a terra, vicino a un pluviale stanno ancora un paio d’occhiali da sole, che il loro sbadato proprietario non ha ancora reclamato. Affiancate le finestre aperte di un’abitazione i cui occupanti stanno consumando la cena si commenta che “questi sono sempre in ferie”, si supera la vecchia latteria e si giunge alla fermata “Vittorio Cadel”. La sosta di fronte alla biblioteca comunale dedicata all’illustre concittadino dura tre minuti scarsi, perché urge rientrare. Si lamenta con disappunto la condizione precaria in cui è ridotto un pezzo del cortile della scuola elementare e badando a dove si mettono i piedi col massimo scrupolo, si imboccano gli ultimi 30 metri che ci separano dal traguardo. In loop, ogni sera. Da quando le giornate si son fatte più brevi abbiamo però dovuto rinunciare allo struscio e ora ci attendono nuovi panorami, nuovi riferimenti e abitudini da ricostruire. Ogni giorno si andrà “a lavorare” in un ostello temporaneo, “pieno di vecchi”, per rientrare la sera entro mura non più familiari. E chissà se il pensiero tornerà più al gingerino di Jacu...

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