Quando una banca in condizioni di difficoltà viene acquisita da un istituto più solido, da qualche anno a questa parte la vulgata comune definisce l’operazione “un regalo fatto alle banche private”. Si tratta di una visione distorta, che si forma generalmente perché si dispone di informazioni sommarie, incomplete e senz’altro insufficienti, una visione spesso colpevolmente viziata dai peggiori effetti del populismo che sta imperversando in questi tempi confusi. La storia dei dissesti bancari non è certo recente. Un esempio datato ma significativo è il cosiddetto scandalo della Banca Romana, che fu uno degli istituti ancora autorizzati a battere moneta anche dopo la fondazione del Regno, successivamente fuso con altri per costituire nel 1893 la Banca d’Italia.
Così come la scritta “La legge è uguale per tutti” compare in ogni aula di tribunale, questa frase, scolpita nel marmo, dovrebbe essere esposta nell’ufficio di ogni direttore di filiale. Giacchè perfino ai professionisti del credito, per diverse ragioni, questo concetto ancora oggi non sempre risulta ben chiaro. L’attività bancaria tipica, quella da cui originava la maggior parte dei ricavi, almeno fino ad alcuni anni fa, quando il livello dei tassi ha iniziato una costante discesa andando a erodere il margine da gestione denaro, è la concessione del credito. Dal mutuo che serve alla coppia di novelli sposi per acquistare la loro prima abitazione, al finanziamento necessario per sostituire l’automobile, le banche intervengono prestando denaro. Quello che non risulta altrettanto evidente all’opinione comune è che oltre ai privati cittadini è l’intero sistema produttivo, dai piccoli imprenditori ai grandi capitani d’industria, fino ad arrivare alle corporation quotate in borsa, ad attingere quotidianamente al sistema bancario per finanziare le proprie attività. E non si parla soltanto di investimenti (la sostituzione di macchinari, per esempio, o l’ampliamento del capannone), ma dell’attività corrente. Le banche sostengono finanziariamente il sistema produttivo smobilizzando i crediti di fornitura, anticipando cioè ai venditori gli importi che questi incasseranno (ma non è detto…) in futuro e finanziano il pagamento degli stipendi ai dipendenti, il versamento delle imposte, l’acquisto delle scorte. Si tratta di un flusso costante di denaro che, auspicabilmente in maniera dinamica, va e viene tra i soggetti coinvolti.Quando si concede un prestito non si vende un prodotto ma si acquista un rischio
Detto questo, dev’essere altrettanto chiaro che l’esercizio del credito non è una scienza esatta. Prestare denaro include sempre un margine di azzardo, di incertezza, di alea. Al netto delle malversazioni dei prestatari (non del tutto estranee al settore), possono subentrare nel corso del tempo elementi improvvisi e imprevedibili tali da pregiudicare il buon fine di un’operazione (la restituzione dei quattrini). Per questo sovente ci si premunisce acquisendo delle garanzie. Che vanno tuttavia considerate un elemento del tutto accessorio. Nel senso che non è sulla garanzia che può poggiare la decisione. La garanzia contribuisce, oggi, a mitigare il rischio e, domani (forse), a ottenere il (magari parziale) recupero del dovuto. Tralasciamo qui ogni considerazione sulle errate valutazioni da parte della banca, sulle istruttorie “disinvolte”, sulle concessioni “allegre”, che pure costellano la storia della finanza di ogni Paese e che appartengono alla patologia del sistema rivelando l’inadeguatezza dei pur esistenti controlli e presìdi. Quando i giornali riferiscono di un andamento preoccupante delle sofferenze bancarie, parlano di crediti incagliati, difficilmente recuperabili (ovvero soldi irrimediabilmente perduti), che costituiscono per gli istituti di credito delle perdite secche. Le cronache abbondano, purtroppo, di imprenditori che arrivano a trovarsi in difficoltà (fino a giungere al fallimento) perché non riescono ad incassare i crediti vantati. Per le banche funziona allo stesso modo. Solo che la banca non è un’impresa come le altre. Come abbiamo chiarito più su, il sistema bancario rappresenta un interlocutore indispensabile al sistema Paese.
È per quanto illustrato fino a qui che nessun Paese può permettersi di far chiudere una banca. Perché salvando una banca non soltanto si tutelano i cittadini che vi hanno depositato i propri risparmi, non soltanto si salvaguardano i lavoratori impiegati in quell’istituto, conservandone il posto di lavoro, ma, soprattutto, si tutelano le imprese (quelle che, se fossero costrette a chiudere o a ridimensionare la propria attività, finirebbero per licenziare i propri dipendenti). Se una banca fallisse, i liquidatori dovrebbero revocare i finanziamenti in essere, privando gli imprenditori dell’ossigeno finanziario per molti ormai indispensabile; dovrebbero “realizzare” (ossia monetizzare) le garanzie (gli immobili concessi in ipoteca, per esempio, o titoli dati a pegno) per rientrare dalle esposizioni. Insomma, uno scenario che va dal preoccupante al catastrofico in base alle dimensioni delle banche coinvolte. Ed è per questo che quando si trova un “cavaliere bianco” disposto a farsi carico del risanamento di un istituto in difficoltà, non gli si fa un regalo cedendogli la banca al prezzo simbolico di un euro. Semmai, è il “cavaliere” che con il suo intervento leva le castagne dal fuoco al governo pro tempore, evitando guai ben peggiori a un sacco di gente. Incorporare una banca ormai claudicante, con tutto il personale e gli impieghi in essere (i finanziamenti erogati, verosimilmente non nel migliore dei modi, visto com’è andata a finire), rappresenta per un istituto che gode di buona salute un impegno sfidante, non un regalo; richiede all’incorporante un aggravio di lavoro per la inevitabile riorganizzazione territoriale e una certosina revisione di tutte le posizioni di rischio acquisite. E forse è questo il motivo per cui non si sono mai viste file di investitori ansiosi di poter mettere le mani su una banca decotta come se fosse un affare da non lasciarsi sfuggire o l’ultimo modello di iPhone.
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