(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

giovedì 26 marzo 2020

La nonna Gigia

La nonna Gigia è passata attraverso due guerre mondiali, mentre nell’intervallo il marito salpava per l’Africa Orientale. C’era da guadagnare quanto necessario a saldare i debiti contratti per tirar su la casa e in una delle prime cartoline inviate alla famiglia il giovane Ardito così si rivolgeva alla figlia minore: “Cara Gilda, sono arrivato in Africa, ma la scudéla di caffè non me l’hanno data…” (il riferimento è a una variante del motivetto “Faccetta nera”, che i soldati storpiavano così: “Quando saremo vicino a te, noi beveremo una scudéla di caffè!”). A quel tempo le donne clautane andavano a procurarsi di che sfamare i propri figli fora pal mont (dove “il mondo” iniziava a Barcis). A 19 anni la nonna Gigia si trovava a Venezia. Era alloggiata in una soffitta malsana, dove confezionava scarpeth che avrebbero fasciato le raffinate estremità dei cittadini lagunari cantando le hit dell’epoca. “Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon…”. Allo scoppio della guerra, decise prudentemente di far ritorno a casa. “Il 24 maggio la guerra è dichiarata, alle cinque di mattina Venezia è bombardata”. Dopo la rotta di Caporetto, nell’ottobre del 1917, un reparto di truppe germaniche al comando di un giovane tenente che avrebbe in seguito fatto molto parlare di sé, arrivò in paese attraverso la Forcella Clautana. Appresi della sortita del giovane Rommel durante le ferie estive del 1998, visitando il piccolo museo dedicato alla Grande Guerra che si trova nel castello di Salisburgo, dove la mia attenzione fu attirata da una mappa che tracciava il percorso seguito dal promettente ufficiale. Stando a quanto si legge in questa ricostruzione i paesani accolsero allora quei soldati facendo trovare delle tavole imbandite. La versione della nonna era diversa: raccontava infatti che i mucs avevano saccheggiato senza tanti complimenti la dispensa dell’osteria gestita dalla sua famiglia, sotto gli sguardi atterriti dei presenti.

Anche il secondo conflitto non risparmiò quella conca solitaria. Le valli del Cellina rientravano nella Zona Libera della Carnia e del Friuli e la lotta partigiana fra quei monti fu intensa e sanguinosa. Nell’autunno del 1944 “una massa di oltre settemila uomini, tra tedeschi, repubblichini, mongoli e cosacchi … [sferrarono un’offensiva] che doveva essere risolutiva contro i partigiani della Valcellina” (1944 – Dies irae – Valcellina – L’incendio nazista di Barcis, Ed. Biblioteca dell’Immagine). Furono ancora una volta i mucs, forse proprio in quel frangente, a incendiare la casa dei nonni, ch’era costata così tanta fatica e sudore.

Chi portava i pantaloni in casa, come si suol dire, era senz’altro il nonno, l’Ardito che ho tratteggiato qui (http://www.iltaccuinodipiterpan.it/2017/09/arditi-di-ieri-e-di-oggi.html). La nonna Gigia non si lasciava coinvolgere nelle interminabili e animate discussioni che coinvolgevano di frequente la sua numerosa famiglia, durante le quali continuava ad attendere alle proprie faccende senza dar mostra di interesse. Quando giudicava che si fosse passato il segno, però, era sufficiente uno dei suoi striduli urli risolutori per placare gli animi e zittire i duellanti, compreso l’ardimentoso consorte, facendoli ritirare in disordine e senza speranza, proprio come capitò ai bellicosi teutoni. Se poi le contumelie riguardavano l’ammontare di una spesa, pur necessaria ma ritenuta poco sostenibile, interveniva con una massima di sublime saggezza, che conservo nella memoria e nel cuore: A sarà schei, che no saròn pi nos!

P.S. Conservo con cura e affetto la registrazione di una delle chiacchierate che occupavano i nostri dopocena al posto della televisione, quando la nonna veniva a stare per qualche giorno a casa dei miei. Risale al marzo del 1980. Nel 2006 l’ho rimasterizzata, riversandola su CD e ripulendola dal fruscio di fondo che ne comprometteva l’ascolto. Ne ho poi ottenuto alcune copie, da distribuire alla numerosa “cuginanza” nell’unica occasione che abbiamo avuto in quell’anno di riunirci (quasi) tutti assieme.

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